venerdì 28 settembre 2012

Venezia 69: Kim Ki-duk.



Pietà
Pieta, 2012, Corea del Sud, 104 minuti
Regia: Kim Ki-duk
Sceneggiatura originale: Kim Ki-duk
Cast: Cho Min-soo, Lee Jung-jin
Voto: 8.5/ 10
_______________

Venezia 69
Leone d'Oro al miglior film
_______________

“Il diciottesimo film di Kim Ki-duk” si legge prima dei titoli di testa. “Il diciottesimo?” mi sono domandato. E quando sono usciti i precedenti diciassette? Del cinquantacinquenne regista coreano, in realtà, da noi sono arrivate a malapena sei pellicola (questa è la settima) di cui quattro sono passate in concorso a Venezia; e se aveva sfiorato il Leone d'Oro con Ferro 3 - La Casa Vuota, con questo Pietà lo conquista (molto molto facilmente) facendo battere le mani ai giornalisti una volta tanto contenti.
Leone d'Oro meritato, e non solo per celebrare una carriera famosa solo a pochi, a chi ha amato e consiglia Primavera, Estate, Autunno, Inverno... E Ancora Primavera e a chi apprezza particolarmente il cinema orientale; un Leone meritato perché finalmente si racconta una bella storia che ammazza nello sviluppo e nello svolgimento la sua banalità (vogliamo parlare dei due Leoni precedenti?).
Min-Son è un uomo non ancora fatto e compiuto ma che ha già in sé il seme dell'autosufficienza e della solitudine. Vive in una casa per una persona sola, senza ospiti né amici, e le donne (o gli uomini?, boh) gli vengono in sogno la mattina presto e senza nemmeno svegliarsi si masturba. Poi si sveglia e si pulisce. Poi si alza, e va a lavorare: nella Corea delle baracche di periferia, delle persone povere con le porte delle case di cellophane, dei negozietti di meccanici e metalmeccanici e fabbri va a riscuotere i debiti, i soldi prestati (da qualcun altro), che puntualmente questi poveretti non possono pagare. Lui, allora, passa dalle minacce alla violenza, e li rende storpi, mutilati, monchi, facendoli finire nei loro stessi attrezzi di lavoro, in modo da poter ricevere il sussidio per invalidità col quale possono pagare ciò che devono. A volte, li ammazza proprio. E lo fa davanti alle loro mogli, alle loro madri. È, insomma, una persona senza pietà, senza un briciolo di bontà o di gioia. A sua volta, il suo capo, colui che i soldi ce li mette, lo schiaffeggia in confidenza. E la causa di tanto male, di tanto dolore, potrebbe trovarsi nell'assenza della madre durante la crescita, che l'ha abbandonato quando lui era piccolo. La mamma, un'immensa Cho Min-soo, poi succede che torna, così, dal nulla, noi lo capiamo ma lui no, e quando anche lui lo capisce c'è la metamorfosi. Ha finalmente qualcuno, qualcuno a cui tiene, qualcuno che lo ami. Ma la madre non è tornata per restare. E non aggiungo altro.
Film di pochi personaggi e pochi ambienti e poche parole, tutto silenzi e sensazioni, viene un po' rovinato dalla telecamera a spalla che non sta mai ferma, anche nel massimo dramma traballa e si sposta un po' come vuole, ci regala zoom terribili per poi tornarsene indietro, quasi pare di essere in un proto-reality di Mtv, causa anche delle pelli liscissime dei personaggi, della fotografia algida e del fuoco sempre su tutto. Come al solito, coi film orientali, alcune pause e alcune risposte non ci appartengono e suonano istrioniche, ma ormai c'abbiamo fatto l'abitudine e neanche ce ne accorgiamo più.
Film meno silenzioso e sfiancante dei precedenti, anzi si fa guardare con foga di capire come andrà a finire, sebbene non ci sia niente in ballo. La Corea potrebbe rubarci l'Oscar?

Nessun commento:

Posta un commento