mercoledì 31 ottobre 2012

M.



Skyfall
id., 2012, UK/ USA, 143 minuti
Regia: Sam Mendes
Sceneggiatura originale: Neal Purvis, Robert Wade, John Logan
Basata sui personaggi di Ian Fleming
Cast: Daniel Craig, Judi Dench, Naomie Harris, Ralph Fiennes,
Javier Bardem, Bérénice Marlohe, Ben Whishaw, Albert Finney
Voto: 8/ 10
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Premessa: io e James Bond siamo come due compagni di classe che non hanno mai avuto occasione di presentarsi ufficialmente ma conoscono i rispettivi nomi, non si guardano mai in faccia se camminano per il corridoio così evitano il dilemma «saluto o non saluto», sono quasi certi di non trovarsi simpatici - ma in fondo non si conoscono. E per questo motivo, dei ventidue film su James Bond precedenti a questo, io non ne ho visto nessuno. Ahimè, leggevo delle critiche al primo “007 biondo” quando il ruolo che fu di Sean Connery/ Roger Moore/ Timothy Dalton/ Pierce Brosnan fu dato all'inglesissimo Daniel Craig; vedevo Caterina Murino ascendere e sparire dalla cinematografia internazionale; decrittavo il video di Madonna senza mai capirci niente. Adesso però James Bond compie cinquant'anni, mezzo secolo che la (“raffinatissima”, dicono alcuni) casa editrice Adelphi celebra pubblicando (in versione “elegante”, dicono altri) i pochi libri di Ian Fleming della saga di spionaggio (“Casino Royale” è il primo, che compie sessant'anni nel 2013; traduzione di Massimo Bocchiola, € 16) e che il cinema non si lascia scappare sparando nelle sale una nuova pellicola della serie per un pelo prima della fine dell'anno (ma programmata per l'anno scorso). Viene reclutato (acconsentitemi il verbo) per questa grande festa british, dietro alla macchina da presa, Sam “American Beauty” Mendes che dopo i recenti Revolutionary Road e American Life (titolo italiano di un più poetico Away We Go) si stava facendo dimenticare dal suo pubblico (e dall'ex moglie Kate Winslet) ma che adesso è sulla bocca di tutti. Per il regista, pure lui inglese, amante dei drammi familiari, è la prima volta davanti a un action movie così scoppiettante - la cosa più vicina a dell'azione che aveva girato era stato Jarhead, ma quel film, per definizione, parlava dei soldati che mai hanno sparato un colpo.
Esce da quest'esperienza a testa alta anche perché, per sua ammissione, ha voluto celebrare lui per primo l'immagine-icona dell'investigatore più famoso del mondo andandosi a riguardare tutti i vecchi film della serie e imitandone alcuni (questo, dopo anni, è il primo che riporta sullo schermo la passeggiata con colpo di pistola finale nell'occhio del mirino) e lo capiamo dal quasi-inizio, con dei titoli di testa che tolgono il fiato, puro lavoro digitale minuzioso dai bei colori e dalle belle trovate con sottofondo musicale promettente: la canzone originale “Skyfall”, slegata dal resto della colonna sonora di Thomas Newman sempre coerente a se stessa, è stata interpretata da Adele e da lei scritta insieme al genio della produzione Paul Epworth; parentesi su Adele: 24 anni, 8 Grammy, 3 Brit, 22 Billboard Awards, 3 American Music Awards, 2 album, 14° posto nella classifica dei dischi più venduti della storia della musica, ripeto, nella storia, nella sua interezza. Approda quindi al cinema con una canzone originale sperando di mettere sulle mensole anche un BAFTA magari, un Golden Globe, un Oscar.
Prima di questi titoli di testa di cui non avrei dovuto dirvi niente, però, c'è una lunghissima scena che già ci butta nel vivo della faccenda: un file da strappare dal collo di un cattivone che James e una delle due Bond Girls di cui ci dimenticheremo presto inseguono letteralmente sui tetti di Istanbul e sulle carrozze di un treno in corsa. Macchine sfasciate: 32. Morti: 1, quello sbagliato.
A vedere il lungo film, ormai, non si può non pensare alla saga di Batman. Stessa schiera di nativi digitali (fa la sua comparsa Ben Whishaw, il bravo Grenouille di Profumo, nel ruolo del nerd Q), stessi cambi di vetture che sparano dai fanali, stessi antagonisti pazzoidi che hanno sete di vendetta e stesso popolo che sta a guardare senza accorgersi di niente. Ma se Batman cerca sempre di salvare anche il più inutile abitante di Gotham City, James se ne sbatte altamente dei passeggeri della metro che deraglia e si schianta tra le colonne dei sotterranei di Londra, e continua a inseguire l'ispanico Silva, un Javier Bardem che, qui ve lo annuncio, vincerà il suo secondo meritatissimo Oscar, che dà la migliore interpretazione del solito non-protagonista con addosso il solito caschetto improponibile.
Gran parte del voto è per il suo (geniale) monologo sui topi. Ma effettivamente non vi ho raccontato neanche un filo della trama. Poco importa; tanto sono tutte uguali.

Gotham Independent Film Awards - nominations.



I premi che l'anno scorso hanno fatto scoprire (più o meno) al mondo Beginners (che vinse come miglior film e poi avrebbe vinto l'Oscar per l'attore non protagonista Christopher Plummer) e hanno onorato la nostra amata Felicity Jones (per Like Crazy, perla d'amore che è uscita adesso da noi solo in dvd) ritornano come ogni anno, si chiamano Gotham Independent Film Awards, e come ogni anno ci ricordano quali sono le migliore pellicole indipendenti di tutto il globo, e ce ne fanno scoprire delle altre.
Se già conoscevamo bene, infatti, The Master di Paul Thomas Anderson sulla nascita e gli uomini dietro Scientology (tanto criticato da Tom Cruise che con Anderson aveva girato Magnolia) e soprattutto Moonrise Kingom (in arrivo nelle nostre sale e già recensito) che insieme al precedente si prepara alla scalata verso gli Oscar, quasi ci sono sconosciuti The Loneliest Planet di Julia Lokotev (regista e sceneggiatrice di solo un altro film, Day Night Day Night, passato a Cannes e pure dai Gotham nel 2007) e Middle Of Nowhere di Ava DuVernay (pubblicista e consulente di, tra gli altri, The Help, Shrek, Dreamgirls). Nel primo film, Gael García Bernal e Hani Furstenberg sono una coppia in gita sui monti del Caucaso che si sobbarca quasi interamente tutte le scene; nel secondo, premio alla regia al Sundance, una donna indaga su suo marito dopo che viene condannato a otto anni di reclusione. Completa la cinquina dei candidati al miglior film Bernie, basato su un articolo uscito su un quotidiano del Texas, regia di Richard Linklater, il più navigato del gruppo: 23 film da regista tra cui la coppia Prima Dell'alba & Prima Del Tramonto (per cui fu nominato all'Oscar alla sceneggiatura) (ed è in arrivo Prima Di Mezzanotte), School Of Rock, Fast Food Nation e il più recente e sperimentale A Scanner Darkly.
Cinque candidati tutti diversi per la migliore regia, tra cui due vittoriosi reduci da Cannes: l'esordiente Antonio Méndez Esparza per il messicano Aquí Y Allá (Premio della Critica) e Behn Zeitlin (compositore, montatore, direttore di fotografia, sceneggiatore) per Beasts Of The Southern Wild (Un Certain Regard a Cannes e miglior fotografia al Sundance insieme al Gran Premio della Giuria).
Da quest'ultimo viene anche la nomination alla baby protagonista Quvenzhane Wallis come miglior attrice, ma per gli approfondimenti sulle altre candidature rimando al sito ufficiale.
Durante la serata, che si terrà lunedì 26 novembre, ci saranno quattro tributi a due attori, Marion Cotillard e Matt Damon, al regista David O. Russell e al produttore Jeff Skoll.

Miglior Film:
Bernie di Richard Linklater
The Loneliest Planet di Julia Loktev
The Master di Paul Thomas Anderson
Middle Of Nowhere di Ava DuVernay
Moonrise Kingdom di Wes Anderson

Miglior Regista:
Zal Batmanglij per Sound Of My Voice
Brian Cassidy & Melanie Shatzky per Francine
Jason Cortlund & Julia Halperine per Now, Forager
Antonio Méndez Esparza per Aquí Y Allá
Benh Zeitlin per Beasts Of The Southern Wild

Miglior Interpretazione:
Mike Birbiglia in Sleepwalk With Me
Emayatzy Corinealdi in Middle Of Nowhere
Thure Lindhart in Keep The Lights On
Melanie Lynskey in Hello, I Must Be Going
Quvenzhane Wallis in Beasts Of The Southern Wild

Miglior Interpretazione d'Insieme:
Jack Black, Shirley MacLaine, Matthew McConaughey per Bernie
Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton, Jared Gilman, Kara Haykward, Jason Schwartzman per Moonrise Kingdom
Aubrey Plaza, Mark Duplass, Jake Johnson, Karan Soni, Jenica Bergere, Kristen Bell, Jeff Garlin, Mary Lynn Rajskub per Safety Not Guaranteed
Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Jackie Weaver, Chris Tucker, Anupam Kher per Silver Linings Playbook
Emily Blunt, Rosemarie Dewitt, Mark Duplass per Your Sister's Sister

Miglior Documentario:
Detropia di Heidi Ewing & Rachel Grady
Marina Abramovic: The Artist Is Present di Matthew Akers
Room 237 di Rodney Ascher
How To Survive A Plague di David France
The Waiting Room di Peter Nicks

sabato 27 ottobre 2012

tre film stranieri.



Escono quasi contemporaneamente, da noi nel Bel Paese, tre dei settanta film in lizza per la nomination all'Oscar per il miglior film straniero, tutt'e tre reduci da Festival in cui hanno convinto la critica e la giuria al punto da ricever grassi premi.
È già nelle sale (solo 41 in tutta Italia) Amour, capolavoro indiscusso di Michael Haneke, summa della maturità artistica del regista e dei suoi protagonisti Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, Palma d'Oro meritatissima all'ultimo festival di Cannes che, se esiste una giustizia a questo mondo, metterà i piedi in testa a tutto il cinema americano dell'ultimo anno.
Manca poco (esce mercoledì 31), invece, per un altro film vincitore a Cannes 2012, Oltre Le Colline del già Palma d'Oro Cristian Mungiu (per 4 Mesi, 3 Settimane, 2 Giorni) di cui abbiamo già commentato l'inquietante trailer italiano. Storia di devozione e incomunicabilità di due amiche che si ritrovano in maturità dopo aver passato l'infanzia nello stesso orfanotrofio, ha ricevuto in terra francese i premi alle due migliori attrici e alla sceneggiatura, apparentemente ripetitiva e conservatrice, ma che a lungo andare apre parecchi spiragli. Per una volta, poi, la locandina italiana batte quella originale in bellezza.
Il mese prossimo invece, ma il trailer italiano è già visibile nei cinema e su YouTube, uscirà il primo film non italiano reduce da Venezia 69, Coppa Volpi (regalata) all'interpretazione di Hadas Yaron: La Sposa Promessa - titolo inglese: “Fill The Void” - che racconta di una famiglia israeliana alle prese con una morte precoce che lascia vedovo un uomo e orfano un bambino appena nato, vuoto da colmare, appunto, con un repentino altro matrimonio, per il quale si deve scegliere la fortunata.
I film sono, rispettivamente, le proposte austriaca, rumena e israeliana per i prossimi Academy Awards.
Ecco i link alle recensioni complete:

Amour
di Michael Haneke (Austria)
voto: 9.7/ 10

Oltre Le Colline
di Cristian Mungiu (Romania)
voto: 8/ 10

La Sposa Promessa
di Rama Burshtein (Israele)
voto: 6.6/ 10

giovedì 25 ottobre 2012

noi due al chiuso.



Io E Te
id., 2012, Italia, 100 minuti
Regia: Bernardo Bertolucci
Sceneggiatura non originale: Niccolò Ammaniti, Bernardo Bertolucci,
Umberto Contarello, Francesca Marciano
Basata sul romanzo Io E Te di Niccolò Ammaniti (Einaudi)
Cast: Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco,
Pippo Delbono, Veronica Lazar
Voto: 7.2/ 10
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«Mentre leggevo Io E Te mi tornava in mente un mio film, La Luna, per la tossicodipendenza, per l'incesto; sono andato da Niccolò e gli ho chiesto se avesse preso spunto dalla pellicola e in effetti mi ha risposto di sì». E Bernardo Bertolucci, che parla ad Alessandro Piperno durante l'intervista per La Lettura del Corriere, siccome si vuole rinnovare e reinventare, dopo quasi dieci anni di assenza dalle sale, fa un film basato su un libro ispirato largamente ad un suo film. E da una porcata di film (La Luna, storia d'amore e odio tra una madre e un figlio adolescente eroinomane) non poteva che nascere una porcata di libro (Io E Te, di Niccolò Ammaniti, dieci euro per sessanta pagine appena scritte in corpo dodici: una truffa) dal quale vien fuori un prodotto stranamente apprezzabile, «perché si vede la mano del maestro» diranno alcuni, invece no, perché di maestria a Bertolucci ne è rimasta ben poca (non che ne abbia mai avuta a vagonate). Io E Te, dal libro, taglia il finale patetico e surreale e tutte le altre cose surreali in modo da apparire, o almeno sforzarsi di apparire, un pelo più realista. Certo, è la storia di un quattordicenne, Lorenzo, che non ha amici né ha interesse ad averne e mentre tutti partono per la settimana bianca lui, che ha assicurato alla madre che ci andrà, se ne scende in cantina di nascosto e ci resta per sette giorni chiamando i genitori ogni tanto e raccontando loro com'è la neve. Trama che di realistico ha molto poco. Soprattutto se poi ci aggiungiamo che la cantina conta due divani, un po' di armadi, un letto, un corridoio, un bagno con la doccia, un frigo-bar, prese per ciabatte elettriche, lampade, lumi. In tutto questo spazio, certo, Lorenzo non poteva starci da solo: uno dei primi giorni di “settimana bianca” la sorellastra Olivia compare in tutta la sua irruenza e si mette a cercare uno scatolone con la sua roba, facendo intendere che un tempo la famiglia era più unita e che se si è staccata è anche colpa sua e della sua mano lunga. Non avendo altri posti dove stare e avendo scoperto che Lorenzo, in cantina, non era sceso per una capatina, resterà anche lei a rincollare un rapporto mai stato intero. Serendipità: uno cerca di far contenta la madre che lo vorrebbe più socievole, l'altra cerca di dormire su qualcosa di morbido, entrambi troveranno una spalla su cui contare, non si capisce poi bene in quale futuro e in che modo.
La claustrofobia, che al libro non apparteneva e al film sarebbe dovuta appartenere, viene spezzata continuamente con l'inquadratura, dal di fuori, della grata della finestrella che collega lo scantinato alla strada, come nei peggio film americani che inquadrano continuamente la metropoli dall'alto per staccare dalla notte al giorno. La claustrofobia, poi, non c'è perché 'sto posto è una reggia: i due trovano vestiti, tappeti zebrati, bauli, pellicce, roba che dà un tocco incredibilmente kitch alle scene - e che ci piace.
Jacopo Olmo Antinori, una costellazione di brufoli e punti neri da unire per ottenere un disegno, ha la faccia azzeccatissima e la voce perfetta, ed è un peccato che di lui si sappia così poco, e quello che si sa sia così scontato. Tea Falco, cadenza siciliana e protuberanza in faccia che dalla locandina non si vede grazie a Photoshop, recita meno potentemente ma poveretta non è tutta colpa sua: la sceneggiatura mette in bocca a entrambi cose che ora sono vere ora poco meno, ed è in un paio di «seh, vabbè» detti da Lorenzo che si sente quando c'è dell'improvvisazione. Per scrivere i dialoghi, Bertolucci ha chiamato a sé il prima citato Niccolò Ammaniti (del quale viene reso in film tutto ciò che scrive, anche gli autografi sui libri: L'ultimo Capodanno, Branchie, Io Non Ho Paura, Come Dio Comanda) insieme a due veterani del cinema italiano, Umberto Contarello e Francesca Marciano. Chiama, poi, un piccolo cast che si muove in pochi spazi - perché, segregato com'è alla sedia a rotelle, non si può permettere di girare molti esterni, addirittura pensava lui per primo di dover abbandonare il cinema. La sua condizione di handicap si intravede soprattutto in una cosa: far andare la telecamera sempre in alto, inquadrare il cielo, un luogo che ormai non gli appartiene più.
Poi Olivia si alza, prende Lorenzo, canta “Ragazzo Solo, Ragazza Sola” mentre ballano (ciao, The Dreamers), ed è questo il cinema di Bertolucci che ci manca.
Gioco a premi: di quale film è stato co-protagonista il venditore di animali e come si chiama?

il film dei Paesi Bassi.



Kauwboy
id., 2012, Paesi Bassi, 75 minuti
Regia: Boudewijn Koole
Sceneggiatura originale: Jolein Laarman & Boudewijn Koole
Cast: Rick Lens, Loek Peters, Susan Radder
Voto: 7.7/ 10
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Clicca qui per vedere il film.
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Jojo [pronuncia: yò•yo] è un ragazzino di pochi anni che non vediamo mai andare a scuola ma vediamo in cucina a preparare la colazione, in lavanderia a caricare la lavatrice, davanti al frigo a prendere la birra al padre. Quando il genitore alla mattina saluta ed esce da casa, Jojo si mette a correre e raggiunge la vetta di un ponte sulla strada dal quale grida «sono arrivato prima io!» o cose del genere, di giorno in giorno. Una mattina, mentre dal ponte torna a casa con ancora addosso i guanti da forno, si imbatte in un albero sul quale una taccola ha fatto nido, dimenticandosi di portar su il piccolo, quasi appena nato, incapace di volare. Jojo vede l'uccellino nero, se lo infagotta nella maglietta risvoltata, s'arrampica per i rami ma puff, il taccolino cade, e pensiamo tutti che sia morto, infante com'è, invece è vivo, e Jojo se lo porta a casa.
Mentre lo racconterà al nuovo animale domestico, ascolteremo anche noi perché vive da solo col padre, perché la madre è in America e spesso telefona ma non torna mai, perché si occupa così tanto della dimora - senza, in realtà, saperlo fare - e perché dice di esser contento anche se il padre è tremendamente padrone. Tutte queste cose le racconterà poi a una compagna della squadra di pallanuoto che spunterà il giorno in cui la rabbia repressa di Jojo si manifesterà in un morso al polpaccio.
Vincitore solo a Berlino del premio all'esordio Generation Kplus e del Gran Premio Kinderhilfswerk, vincitore del Premio del Pubblico Giovane dei prossimi European Film Awards e del Miglior Film Internazionale al Festival di Buenos Aires, Kauwboy (termine che non vuol dir letteralmente nulla) è la storia di una taccola e del bambino che le insegnò a volare perché privato di qualsiasi altro affetto nel mondo. La difficile situazione col padre, mascherata di rosa davanti agli occhi di lui e nei suoi racconti, trova solo tenerezza e nessuna vendetta nella cura con cui Jojo insegna al volatile a prendersi paura dei cani e delle automobili (dolcissimo momento di cinema, il migliore del film). Ci ricordiamo, vagamente, di Tomboy e dei bambini di The Tree Of Life, attori magistralmente scelti e inquadrati mentre scorrazzano per i prati e vivono la loro infanzia; qui c'era lo stesso rischio: un bambino non all'altezza avrebbe rovinato tutto. E invece questo Rick Lens (giunto alla Berlinale col suo orsacchiotto) ci convince e si convince lui stesso, sobbarcandosi tutto il dramma. Accanto, gli vengono messi il solito grasso e pelato burbero genitore (il celebre-in-patria Loek Peters) e un'amica silenziosa ma complice che compare a metà e rimane fino alla fine - una piccola e olandese Kristen Stewart che si chiama in realtà Susan Radder. (In un ruolo minore, con una scena appena, c'è anche Ricky Koole, la protagonista del film che i Paesi Bassi mandarono l'anno scorso, Sonny Boy, ve lo ricordate?). Anche queste (il rapporto padre/figlio, l'amica silenziosa, l'animale domestico, la competizione agonistica, l'accettazione dei compagni) sono immagini e scelte banalotte e già trite, come anche i rallentatori delle corse e delle nuotate e dei salti sul tappeto elastico. Boudewijn Koole, regista esordiente, ne viene fuori (e viene fuori dalla trama per documentare solo le sensazioni) con una telecamera a spalla e una fotografia verdognola che dànno al film l'idea che niente mai, prima, abbia avuto quel colore, in nessuna stagione.
Dato il successo internazionale, i Paesi Bassi prendono e mandano in America, per gli Oscar 2013. E gli americani che fanno?, cambiano il titolo in Little Bird.

i film stranieri/ 3.



Terza e ultima parte.
Si comincia con la Russia che l'anno scorso non mandò in America il Faust di Sokurov preferendogli il sequel di Burnt By The Sun (fischiato in sala e ignorato da tutto il mondo) solo perché la prima metà aveva vinto la statuetta, e la Russia quest'anno manda lo sconosciuto White Tiger dello sconosciuto Karen Shakhnazarov che in realtà era in concorso a Cannes nel '91 con L'assassinio Dello Zar (protagonista: Alex di Arancia Meccanica). Del film, sappiamo solo che è d'azione.
La Corea sel Sud gioca forte e manda il Leone d'Oro del ben più noto e osannato Kim Ki-duk. Il regista, già inviato nel 2003 con Primavera, Estate, Autunno, Inverno... E Ancora Primavera, non ha mai sfiorato la statuetta, e il suo stato, poveretto, dal 1962 ad oggi non ha mai ricevuto nominations. Sarà la volta buona, o avranno la meglio i suoi rivali Palma d'Oro e Orso d'Oro?
E siccome quest'anno erano usciti pochi film che narravano le gesta di Biancaneve in tutte le salse - musical, action, ribaltata, visionaria, per grandi, per piccini - la Spagna ha sfornato un filmetto dallo spagnolo titolo Blancanieves che, sempre in tema di originalità, è muto e in bianco e nero; storia della fiaba dei Grimm riportata all'Andalusia degli anni '20, è un tributo ai film europei di quel periodo, ma forse non si sono accorti che c'ha già pensato The Artist. Con protagoniste Maribel Verdú (Il Labirinto Del Fauno e il più recente Tetro di Coppola) e Ángela Molina (La Sconosciuta, Baaria, Gli Abbracci Spezzati), è già stato presentato a Toronto e in altri festival riscuotendo abbastanza successo; la Spagna, poveretta anche lei, ha vinto solo quattro Oscar al film straniero in quasi sessant'anni, su un putiferio di candidature (gli ultimi Volver e También La Lluvia furono solo inseriti nella lista di gennaio).
La Svezia, che ne ha vinti solo tre, due dei quali con Bergman (ma Il Settimo Sigillo e Persona non vennero nemmeno candidati) schiera un regista che ormai di svedese ha molto poco anche se si chiama Lasse Hallström. Candidato già da solo a tre statuette (sceneggiatura e regia de La Mia Vita A Quattro Zampe e regia de Le Regole Della Casa Del Sidro) ha ormai consumato gli anni d'oro in cui sfondava al botteghino e al Kodak Theatre (Buon Compleanno Mr. Grape, Chocolat). Gli ultimi Hachiko, Dear John e Il Pescatore Di Sogni sono stati bocciati dalla critica anche se discretamente venduti nei cinema. Questo nuovo Hypnotisören è un crime/thriller recitato in svedese e girato prima del ritorno ai libri di Nicholas Sparks.
La Svizzera, dopo l'italiano Giochi D'estate dell'anno scorso, manda un film recitato in francese di cui abbiamo già parlato e che ha già vinto l'Orso alla regia a Berlino l'anno scorso ma che agli americani non dovrebbe piacere, dato il forte timbro europeo tipico dei Dardenne (che non si candidano mai). Sister, di Ursula Meier, titolo originale “Il Bambino Dall'alto”, è la storia di un fratello e una sorella che per campare ai piedi dei monti innevati di turisti tutto l'anno rubano ai ricchi per rivendere ai passanti e potersi allora comprare il necessario. Ma rimando alla recensione.

Russia: Belyy Tigr (White Tiger) di Karen Shakhnazarov
Serbia: Kad Svane Dan (When Day Breaks) di Gorana Paskaljevica
Singapore: Already Famous di Michelle Chong
Repubblica Slovacca: Az Do Mesta As (Made In Ash) di Iveta Grófová
Slovenia: Izlet (A Trip) di Nejc Gazvoda
Sudafrica: Umfaan (Little One) di Darell Roodt
Corea del Sud: Pietà di Kim Ki-duk
Spagna: Blancanieves di Pablo Berger
Svezia: Hypnotisören (The Hypnotist) di Lasse Hallström
Svizzera: L'enfant D'en Haut (Sister) di Ursula Meier
Taiwan: Touch Of The Light di Chang Rong-ji
Tailandia: Fon Tok Kuen Fah (Headshot) di Pen-Ek Ratanaruang
Turchia: Ates'in Düstügü Yer (Where The Fire Burns) di Ismail Günes
Ucraina: Firecrosser di Mykhailo Illienko
Uruguay: La Demora (The Delay) di Rodrigo Plá
Venezuela: Piedra, Papel O Tijera (Rock, Paper, Scissor) di Hernán Jabes
Vietnam: Mùi Co Cháy (The Scent Of Burnt Grass) di Nguyen H˜uru Muòi

martedì 23 ottobre 2012

Meryl Springs.



Il Matrimonio Che Vorrei
Hope Springs, 2012, USA, 100 minuti
Regia: David Frankel
Sceneggiatura originale: Vanessa Taylor
Cast: Meryl Streep, Tommy Lee Jones, Steve Carrell
Voto: 6/ 10
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Hope Springs è il nome della località («troppo cara») del Maine dove si recano Arnold e Kay, coppia sposata da trentun anni appena festeggiati con cena di famiglia, rinnovo della tv via cavo (soprattutto per vedere il golf) e due candelabri in vetro («proprio quello che ci serviva»). Si recano nel Maine, ad Hope Springs, cittadina che non viene mai nominata nella versione italiana della pellicola dato che il titolo originale è stato tramutato nel più aulico Il Matrimonio Che Vorrei, perché il loro trentennale matrimonio è arrivato al punto in cui si dorme in camere separate e l'unico contatto fisico è il bacio (sulla guancia) del mattino, prima che lui vada a lavoro e mentre lei lava la padella in cui ha appena fritto un uovo.
Vanno nel Maine, allora, precisamente ad Hope Springs, perché lì c'è lo studio in cui il dottor Feld riceve le coppie in crisi e le aiuta o a uscire dalla crisi tornando ad amarsi oppure a separarsi definitivamente. Trova che Kay e Arnold siano una coppia giustamente sposata, a differenza di molti altri suoi pazienti, e allora interviene verbalmente tra le loro lenzuola per invitarli a: toccarsi, masturbarsi, fare sesso in camera, fare sesso in luoghi pubblici, dare sfogo alle fantasie, parlare di ciò che hanno appena fatto.
Se ne deduce quindi che questo film sia pieno, pienissimo, strabordante di erotismo. Che infatti c'è. Ed è tutto orale - non nel senso hardcore del termine. Si parla di rapporti orali, orgasmi vaginali, orge con la vicina, posizioni (s)convenienti, si analizza la fine di un desiderio e l'abitudine che ne consegue, ci viene celato il passato di quest'uomo che in realtà ha ancora voglia e questa donna che ha voglia più di lui, e non si vede mai né una tetta né una coscia. Grazie a Dio.
Tutto questo perché anche in terza età si ha un corpo, e si ha una vita sessuale, ed è giusto che un film così leggero e raffinato ce lo ricordi. Ed è giusto, grazie a Dio, che le persone in sala sorridano senza disgustarsi.
“La nuova commedia del regista de Il Diavolo Veste Prada” cerca di far rialzare il suddetto (David Frankel) dallo scivolone doppio preso con Io & Marley del 2008 (sulla locandina del quale pure compariva il riferimento al film precedente) e con Un Anno Da Leoni, titolo originale: The Big Year, dell'anno scorso. Forse ci riesce, a livello di cassetta: Hope Springs ha incassato infatti in America quindicimila dollari e mezzo al primo fine-settimana di proiezione; sarà che l'accoppiata, in locandina, “bla bla Il Diavolo Veste Prada e Meryl Streep” ha funzionato. Quando c'è Meryl Streep sulla locandina, infatti, si sa: il film sarà sicuramente buono, se non altro perché la sua recitazione è un dono del buon Dio e basta a riempire un'ora e mezzo di nastro (si legga: Julie & Julia); perché poi, ancora, se c'è Meryl Streep allora sarà un film composto, educato, non volgare, simpatico in modo intelligente, ironico, triste quanto basta per essere apprezzato dalle amiche del mercoledì allo spettacolo del pomeriggio, e perché queste si facciano accompagnare dai mariti ci mettiamo il fuggitivo Tommy Lee Jones, che mai nessuno si aspetterebbe di vedere in una commedia ma, se mai se lo aspettasse, se lo immaginerebbe così.
La coppia funziona tanto grazie a lei quanto grazie a lui, ma si sa: Meryl Streep è il nome di un record, non di un'attrice, è il nome di diciassette nominations all'Oscar e tre statuette vinte, ventisei nominations ai Golden Globe tra televisione e cinema e otto globi vinti, e possiamo dire quasi certamente che arriveranno a breve la diciottesima da una parte e la ventisettesima dall'altra. Dio non voglia.
Insieme a loro, insipido e inutile, c'è lo Steve Carrell che è così bravo in The Office, è stato così bravo in Little Miss Sunshine, ma al cinema forse dovrebbe tornarci il meno possibile.
Curiosa curiosità: la sceneggiatrice di questa storia originale, che si chiama Vanessa Taylor, è stata molto brava a raccontare la sessualità senile e i rapporti di coppia al margine della fine; e la sua bravura deriva dal fatto che lei non fa né la sceneggiatrice di commedie né la consulente per anziani: produce (e scrive) Game Of Thrones.

giovedì 18 ottobre 2012

la Svizzera tedesca.



Il Comandante E La Cicogna
id., 2012, Italia, 108 minuti
Regia: Silvio Soldini
Sceneggiatura originale: Doriana Leondeff, Marco Pettenello, Silvio Soldini
Cast: Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston,
Claudia Gerini, Luca Zingaretti, Maria Paiato, Michele Maganza
Voto: 7.2/ 10
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Film a episodi misti e mischiati, pasticcio di generi e di trovate, la “nuova commedia di Silvio Soldini” promette benissimo dal trailer e ancora meglio dal titolo (dopo Pane E Tulipani, Agata E La Tempesta, Giorni E Nuvole, gli piacciono le coppie insomma). Promette bene, poi, per il cast, che è il solito (Battiston è in tutti i suoi film, la Rohrwacher negli ultimi tre) e che sappiamo essere sempre ben diretto e magistrale. Ma poi il film comincia, mentre Garibaldi in groppa al suo cavallo guarda tutta la piazza dall'alto e ciò che la abita, le liti tra le parcheggiatrici, gli incendi dolosi dei liceali, i furti ai parchimetri, e fuori campo si mette pure a parlare (con la voce subito riconoscibile di Pierfrancesco Favino) e no, la cosa non ci piace. Non ci piace nemmeno che poco dopo Garibaldi si metta a parlare, sempre statua e sempre a bocca cucita, con il cavalier Cazzaniga poco lontano da lui, fatto di un altro materiale, adagiato su un altro marciapiedi. I battibecchi, simpatici se li si prende con la satira dell'Italia di oggi e soprattutto se non si è della Lega, fanno una parentesi a sé stante che ogni tanto viene riaperta e richiusa, mentre a Torino cala la notte e l'unico che rimane sveglio è Leopardi, pure lui parlante, o Leonardo (entrambi doppiati da Neri Marcorè), dato che i busti li fanno con gli occhi aperti.
Nel mentre, anche Alba Rohrwacher, col nome simbolico di Diana, si guarda intorno. Si guarda come può fare solo un'artista, una disegnatrice, e come le artiste non arriva a fine mese e non si decide a partire per Berlino o Barcellona come tutti i suoi amici. Vede passare un furgoncino di idraulici e poi vede il suo proprietario di casa con cui è sempre in debito, senza sapere che tutte le loro strade si incroceranno. L'idraulico, Valerio Mastandrea, arranca pure lui tirando avanti una casa gravata da mutuo, una figlia porno-diva involontaria, un figlio ambientalisticamente nerd, una moglie morta che alle quattro di notte torna ad annusare il caffè miscela indiana Coop. Il proprietario di casa, Giuseppe Battiston, cita grandi nomi del passato e impara lingue per frasi fatte e dorme su cassetti impilati e sotto radio pendenti e ruba (sempre alla Coop) per dare a se stesso.
La commedia procede ad alti e bassi e bassissimi e più procede più migliora e sorprende (fatta eccezione per le solite dissolvenze a cerchio nero che non si possono vedere più e gli effetti speciali soprattutto nella corsa in bici in mezzo al traffico). Sono un po' patetici e ritriti i personaggi di Luca Zingaretti avvocato dei malavitosi e Maria Paiato segretaria lecchina mentre sono originalissimi e ben riusciti quelli dei protagonisti, e su tutti la Rohrwacher dà una delle migliori interpretazioni della carriera. Di contorno ci sono anche Giselda Volodi, appena vista in È Stato Il Figlio, che ha due battute contate ma le dice benissimo, e poi tale Shi Yang, cinese con nome italiano (geniale abbreviazione) che parla fluentemente dialetto. Altro aspetto interessante del film: il melting pot sociale e giustificato - Claudia Gerini è irrealmente genovese e ha sposato un realistico napoletano da cui si presentano due genitori sardi disperati...
Poi, mentre continuano gli alti e i bassi (bella la storia dei morti che fanno sciopero eccetera, meno bella la scappatella in Svizzera), si giunge a una pessima scena finale che però viene subito ripresa da splendidi titoli di coda.
Un film da vedere alla domenica pomeriggio, se ci si è abbuffati a pranzo.

pollo per cena.



Killer Joe
id., 2011, USA, 102 minuti
Regia: William Friedkin
Sceneggiatura non originale: Tracy Letts
Basata sullo spettacolo Killer Joe di Tracy Letts
Cast: Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Juno Temple,
Thomas Haden Church, Gina Gershon
Voto: 9.3/ 10
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Festival di Venezia numero 68, settembre 2011. Questo blog era ancora nel mio grembo mentre in concorso passava il nuovo film del regista de L'esorcista che, dopo L'esorcista, mi sono chiesto, dove è finito? (risposta: ha diretto pellicole di pochissimo successo per il cinema e molti film per la TV e più recentemente due episodi di CSI) (adesso ha quasi ottant'anni), e il Tracy Letts così celebrato sulla locandina - addirittura da avere uno spazio proprio grande quanto quello di Matthew McConaughey, mi sono chiesto, chi diamine è? (risposta: attore televisivo sconosciuto, comparso in episodi di telefilm diversissimi, da Prison Break a Giudice Amy, sceneggiatore di Bug sempre diretto da Friedkin e co-protagonista di Guinevere). L'idea di andare a vedere un film con la parola “killer” nel titolo, scritto da uno sconosciuto osannato, diretto da William Friedkin (si chiama così il regista premio Oscar de L'esorcista), insomma, non è che proprio mi allietasse molto. E poi, come quando non hai voglia di uscire e ti diverti da matti, ecco la sorpresa: il film mi è piaciuto così tanto che ho atteso l'uscita italiana per rivederlo e recensirlo meglio (di come avessi fatto nel trafiletto scritto agli albori).
Inizio tipico: piove a dirotto, il cane abbaia, la casa-roulotte dove Emile Hirsch cerca di entrare pare sigillata dall'interno e vuota, il cane abbaia ancora, fuori è buio, qualcuno si alza e apre la porta ed è una donna coi peli del pube al vento, la seconda moglie di Thomas Haden Church (faccia vista e rivista, candidato all'Oscar per Sideways) che vive come vivono tutti là dentro e nella città: sboccata, vestita alla meglio, pochi soldi per campare e le meglio gioie dalla vita. Le camicie infilate nei jeans, le moto, le pizze al bancone, le sale da biliardo, siamo in un'America della peggio periferia simbolo dei western urbani, dove pare che il tempo si sia fermato agli anni '90 mentre siamo tutti nella stessa barca. Tra queste persone svezzate alla nascita che come il povero Emile fanno debiti su debiti e puntano sui cavalli e si fanno inseguire dagli strozzini, la candida Juno Temple, realisticamente quattordicenne, dice cose fuori luogo e “strane” e sembra spaventata e a suo agio da tutto e con tutti. Rotea per strada, si alza la notte ed esce in vestaglia, avevo predetto per lei una nomination all'Oscar che non è arrivata perché il film anche in America è uscito con immenso ritardo.
Insomma, alla famiglia Smith non manca niente per campare, eccetto a Chris che ha seimila dollari di debito. La soluzione sarebbe: ammazzare la madre ed ex moglie dei maschi, prendere i contanti dell'assicurazione sulla vita, spartirseli equamente (in tre o in quattro?) e chi s'è visto s'è visto. Anche la ragazzina, che tutto sente ma niente le viene detto, tratta l'omicidio della genitrice come si tratta la marca di detersivo da usare. E questo omicidio, a chi lo facciamo fare?, ho sentito parlare di tale poliziotto, si chiama Joe Cooper, prende venticinquemila dollari e la storia fila liscia e pulita.
Di questi venticinquemila, però, Joe vuole una caparra, che gli Smith non hanno. E allora scendono a compromessi: cena galante con la dolce Dottie/ Juno Temple.
Nei panni di Killer Joe, come dice giustamente il trailer italiano, Matthew McConaughey supera se stesso e interpreta un feticista schizzato psicologicamente disturbato e incredibilmente interessante (da analizzare) uomo dalla doppia vita e dal doppio atteggiamento verso gli altri, che non sa gestire la rabbia né sa capire quali sono i limiti tra il consono e l'eccessivo. Tutto è eccessivo: i dialoghi, la volgarità, la nudità (e quella di Joe, essendo anche precedente a Magic Mike, è una delizia), le spogliarelliste, le botte, e questo eccesso di splatter verbale e di costume erutta nella scena finale che resta impressa, stampata nella memoria come poche altre immagini nella storia del cinema.
Un capolavoro di genere, il film dell'anno (scorso, e di questo), che certo dà più soddisfazione se visto in inglese e che a Venezia, l'anno scorso, settembre 2011, giustamente i critici avevano messo in cima alla classifica - e che giustamente, come i film migliori, non ha vinto niente.

mercoledì 17 ottobre 2012

#Weirowins.



ParaNorman
id., 2012, USA, 92 minuti
Regia: Chris Butler & Sam Fell
Sceneggiatura originale: Chris Butler
Voci originali: Kodi Smit-McPhee, Anna Kendrick, Tucker Albrizzi,
Christopher Mintz-Plasse, Casey Affleck, Leslie Mann, Jeff Garlin
Voci italiane: Francesco Ferri, Lilian Caputo, Federico Bebi,
Alessio Nissolino, Alessandro Budroni, Monica Ward
Voto: 8.4/ 10
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Il film che vincerà il prossimo Oscar al lungometraggio animato (e sarebbe il primo per la giovane Laika, casa di produzione anche di Coraline che all'Oscar si candidò a suo tempo, dopo che Rango l'anno scorso con la neonata Nickelodeon Movies sbaragliò la concorrenza DreamWorks) (taccio sulla vittoria di Rango) arriva da noi in Italia esattamente due mesi dopo il debutto americano e fa un incasso discreto sia qua che là. Cosa che sorprende: 1) perché i film d'animazione originali dovrebbero, se Dio esistesse, incassare più delle porcate (taccio sulla definizione di “porcate”); 2) perché è un film d'animazione non facile, a livello di temi e impatto. Dimenticate i fiocchi di cotone bianco come neve lieve e i giorni di pioggia Andrea e Giuliano; qui ci sono le ossa fuori dalla carne viva, ci sono le mascelle allentate dal tempo che pendono sotto alle gengive ben visibili, ci sono tutta una serie di caricature corporee (nel popolo si intravedono Cher e Dolly Parton) poco accessibili agli adulti e ai loro figli. Di contro, ci sono i soliti personaggi della fiaba: un protagonista incompreso (Ariel, Mulan, lo stesso Rango, la più recente Merida) perché diverso dal gregge: mentre sua sorella parla al telefono delle tartarughe sugli addomi dei maschi e i suoi genitori conducono un'inesistente vita casalinga e mondana, Norman parla con sua nonna morta in salotto e guarda film dell'orrore girati negli anni '70 in televisione, si infila pantofole a forma di zombie, raccoglie in camera sveglie-lapidi e poster splatter, si lava persino i denti con qualcosa che esce da un teschio umano. Degli anni '70 che stavano per finire c'è molto: tutti i colori usati, dentro e fuori al televisore, i vitini strettissimi delle donne e la larghezza dei loro fianchi, l'ambientazione americana di periferia, il gusto nei suddetti manifesti, l'automobile di famiglia. Ma c'è, in realtà, tutta la modernità dei dilatatori alle orecchie e dei messaggi gratis al cellulare tra i giovanotti. In questa città di bulli e pupe il nostro Norman che vede le anime dei defunti per strada e con loro conversa proprio non viene capito, ed è un fatto bizzarro, dato che la città intera si fonda sulla storia di una strega e tutto il popolo è ossessionato da questa figura alla quale hanno innalzato statue e dedicato nomi di negozi. Norman è “quello strano” mentre Neil è “quello ciccione”, emarginati sociali che insieme a un metallaro e a un tonto palestrato finiranno per salvare la contea dall'annuale manifestarsi della maledizione.
Tra salti temporali e di scrittura e un paio (ma due contate) battute divertenti, nasce il suo Chris Butler e Sam Fell; il primo, firma anche la sceneggiatura (da solo) dopo aver lavorato in Disney (Tarzan, La Sposa Cadavere) mentre il secondo, già regista di Giù Per Il Tubo, si ferma alla regia. Regia che è notevole (e lodevole) per cosa lo schermo ci fa vedere e come (già alle prime pance si coglie la buona idea). Dall'altra parte della macchina da presa, invece, se così si può dire anche in questo caso, nella parte di Norman c'è questo Kodi Smit-McPhee che un horror l'ha già girato e ha girato, soprattutto, The Road con Viggo Mortensen, interpretando suo figlio, in pratica uno dei quattro unici attori della pellicola; c'è la candidata all'Oscar (per Tra Le Nuvole) Anna Kendrick, anche in 50/50 e Twilight; c'è il meraviglioso Casey Affleck in una veste che non vedremo mai più; Alex Borstein già voce di Lois ne I Griffin; John Goodman in un ruolo piccolo piccolo; Leslie Mann.
Il film va visto per: la cura con cui si rifà ai B-movies degli anni '70 e '80 e l'ironia che ci cuce sopra; la minuzia con cui è stato realizzato nel suo proto-stop motion (la bellezza di quelle stoffe, di quei tessuti, di quelle mani, di quelle pelli); la battuta finale di Mitch, che sfata un mito d'infanzia; i meravigliosi (quasi quanto queste altre locandine) titoli di coda.

domenica 14 ottobre 2012

i film stranieri/ 2.



Seconda parte dell'estenuante lista dei film candidati alla candidatura per i nove film invernali tra i quali poi cinque si candideranno effettivamente agli 85esimi Academy Awards volgarmente chiamati Oscar, e uno solo (di solito è uno) poi se ne tornerà da dov'è venuto con la statuetta.
In questa seconda parte salta all'occhio, in mezzo a tanti titoli sconosciuti, la Caméra d'Or di Cannes, Después De Lucía, “Dopo Lucia”, storia della sopravvivenza di un padre e una figlia dopo la morte della moglie e madre, Lucía appunto, che sfocia nella violenza fisica come illustra il meraviglioso manifesto originale.
E ultimo dell'elenco, ma sicuramente uno tra quelli con maggiori potenzialità, è il “nuovo film di Cristian Mungiu”, autore di 4 Mesi 3 Settimane 2 Giorni, che a suo modo era un capolavoro di regia, sceneggiatura e assenza totale di musica, Palma d'Oro a Cannes quello e premi per la sceneggiatura (non originale) e le attrici questo. Si chiama, in italiano, Oltre Le Colline e uscirà questo mese con l'attesa di tutti i cinefili arguti: due amiche, cresciute insieme in orfanotrofio e poi separate dall'età e dagli eventi, si ritrovano ormai adulte nel monastero in cui una delle due vive e prega Dio, e l'atteggiamento dell'altra porterà scompiglio tra i credenti e nella chiesa, fino a una vera e propria crocifissione prima della metaforica e geniale scena finale. Un film che, a prima vista, non incanta, ma che poi, col passare del tempo, mette radici e si fa apprezzare. E non lasciatevi ingannare dal trailer italiano che lo rigira a mo' di horror. È un puro film religiosamente umano senza quella musica né quell'ansia in sottofondo.
Degli altri film, Sangue Do Meu Sangue esce da Toronto (Premio FIPRESCI e riconoscimenti vari alle attrici), Mort À Vendre e Las Malas Intenciones da Berlino (il primo Premio Panorama e il secondo ha una baby protagonista straordinaria) e il film per famiglie Kauwboy ha vinto, sempre a Berlino, il Premio all'Opera Prima e agli European Film Awards il Premio del Pubblico Giovane.

Giappone: Kazoku No Kuni (Our Homeland) di Yong-hi Yang
Kazakistan: Zhau Zhurek Myn Bala (Myn Bala: Warriors Of The Steppe) di Akan Satayev
Kenya: Nairobi Half Life di David Tosh Gitonga
Kirghizistan: Pustoi Dom (The Empty Home) di Nurbek Egen
Lettonia: Golfa Straume Zem Ledus Kalna (Gulf Stream Under The Iceberg) di Yevgeny Pashkevich
Lituania: Ramin di Audrius Stonys
Macedonia: Tretu Poluvreme (The Third Half) di Darko Maitrevski
Malesia: Bunohan di Dain Iskandar Said
Messico: Después Dé Lucía (After Lucia) di Michel Franco
Marocco: Mort À Vendre (Death For Sale) di Faouzi Bensaïdi
Norvegia: Kon-Tiki di Joachim Rønning & Espen Sandberg
Olanda: Kauwboy di Boudewijn Koole
Palestina: Lamma Shoftak (When I Saw You) di Annemarie Jacir
Perù: Las Malas Intenciones (The Bad Intentions) di Rosario García-Montero
Filippine: Bwakaw di Jun Robles Lana
Polonia: 80 Milionów (80 Millions) di Waldemar Krzystek
Portogallo: Sangue Do Meu Sangue (Blood Of My Blood) di João Canijo
Romania: Dupa Dealuri (Oltre Le Colline) di Cristian Mungiu

sabato 13 ottobre 2012

testo originale a fronte.



On The Road
id., 2012, USA, 124 minuti
Regia: Walter Salles
Sceneggiatura non originale: José Rivera
Basata sul romanzo Sulla Strada di Jack Kerouac (Mondadori)
Cast: Garrett Hedlund, Sam Riley, Kristen Stewart,
Amy Adams, Tom Sturridge, Danny Morgan, Kirsten Dunst,
Viggo Mortensen, Elisabeth Moss
Voto: 7.5/ 10
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Premessa/ 1: questa recensione si baserà solo e solamente sul film, considerando il film come opera a sé stante, senza compararla al libro né sottolineare somiglianze e differenze o errori di sceneggiatura.
Premessa/ 2: altra cosa che non ci domanderemo, in questa recensione, è il perché, la necessità di fare un film basandosi sul romanzo di Jack Kerouac adesso, a distanza di così tanti anni, ora che il sesso omosessuale non fa (sicuro?) più scalpore, come il sesso promiscuo o il sesso adolescenziale, come il consumo di droghe in gruppo o la prostituzione o il lavoro per campare, tutte cose che all'epoca avevano fatto saltare gli occhi, anche se i sentimenti di perdizione di allora - e intendo le domande «chi sono?», «cosa voglio?», «cosa voglio fare?» - l'essere spaesati tipico dell'età giovane, sono capisaldi di ogni generazione e di ogni gruppo in crescita.
E passiamo allora alla recensione: squadra vincente non si cambia, il regista Walter Salles, celebrato come se fosse una star, regista de I Diari Della Motocicletta tanto piaciuto a tutto il mondo ma soprattutto regista di Central Do Brasil che nel 1998 portò agli Oscar Fernanda Montenegro, sbatte il suo nome in locandina perché raramente si concede al mercato USA (l'ultimo film americano era Dark Water del 2005) e lo affianca, per far fremere tutti, a quello di José Rivera, che agli Oscar pure s'era candidato, per la sceneggiatura de I Diari Della Motocicletta, e che poi s'è piegato al pubblico scrivendo Letters To Juliet. Ne deriva un film che, guarda un po', come la vita degli autori cerca di avvicinarsi e avvicinarsi all'America ma l'esplosione di beltà è in Messico, quando i protagonisti, infine, decidono di toccare anche quella terra e allora ci sono i paesaggi, ci sono i colori, c'è il sole, la pioggia cessa, ci sono le persone socievoli, mancano i poliziotti stronzi sempre pronti a multare per eccessi vari.
I protagonisti, sono i semi-sconosciuti Sam Riley che è anche voce fuori campo (debolezza della storia) e Garret Hedlund. In realtà il primo è stato Ian Curtis in Control e il secondo Sam Flynn in Tron: Legacy e nel corto Tron: The Next Day. In realtà, Riley nella parte di Sal Paradise è il più protagonista di tutti, scrittore col blocco del foglio bianco ma poi non così tanto, che ha un amico, Carlo Marx, così simile ad Allen Ginsberg, che gli presenta tale Dean Moriarty, bello, bellissimo, biondo, sempre nudo, dongiovanni, matto, spericolato, colui che ottiene sempre quel che vuole e non fa niente se si sposa e procrea e finisce i soldi: lui si diverte. E così nasce il feeling, dicono gli americani, tra questo Dean e il nostro Sal e allora ecco che girano per locali, ascoltano il jazz, ascoltano il blues, ascoltano il mambo, ballano come se non ci fosse né un domani né un oggi e poi Dean insieme a Carlo parte, e Sal è triste come se perdesse un fratello, e allora piglia e parte pure lui, li raggiunge. Ne consegue un girovagare per l'America tutta in una sola macchina con passeggeri cangianti tra Kristen Stewart sedicenne maritata spesso zitta e spessissimo nuda - tanto che parli o si svesta c'ha sempre la stessa faccia; Kirsten Dunst altra moglie dell'Apollo, poveretta, su tre scene che ha, piange in due; Amy Adams pazza da legare con scopa per cacciare le lucertole dagli alberi e marito, Viggo Mortensen, dall'intentiva poco ortodossa, mentre ospitano in casa Elisabeth Moss sempre caruccia reduce fresca da Mad Men; Steve Buscemi (reduce da Boardwalk Empire) voglioso accompagnatore di giovanotti; Terrence Howard suonatore e amante incallito.
Un'accozzaglia insomma di storielle e personaggi più o meno noti per delineare un lustro di amicizia e scorribande che però non attecchisce, non emoziona: le cose da dire sarebbero troppe e le scene a disposizione troppo poche. Tutti gli attori secondari hanno cinque minuti in tutto e poi via, in macchina, per proseguire il viaggio. Esagerata la fratellanza tra i due ex estranei Sal e Dean, che però si giustifica vedendo l'andazzo del tempo. Tom Sturridge (e cioè Carlo Marx) è sicuramente il personaggio più “beat” oltre ad essere sempre bravo, come avevamo notato in Symbiosis.
Conclusione: se non avete letto il libro perché non interessati, né avete apprezzato I Diari Della Motocicletta (come anche Priscilla o Thelma & Louise o Into The Wild), né avete cercato Howl il film o il poema di Allen Ginsberg, beh, restate in casa a guardare Boing.

giovedì 11 ottobre 2012

la generazione.



Tutti I Santi Giorni
id., 2012, Italia, 102 minuti
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura non originale: Francesco Bruni, Simone Lenzi, Paolo Virzì
Basata sul romanzo La Generazione di Simone Lenzi (Dalai)
Cast: Luca Marinelli, Thony, Micol Azzurro,
Claudio Pallitto, Giovanni La Parola, Stefania Felicioli
Voto: 8.4/ 10
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C'era una volta un episodio in un film corale che si chiamava Boccaccio '70 (il film corale) che si chiamava Renzo E Luciana (l'episodio), segmento diretto da Mario Monicelli e scritto, tra gli altri, da Italo Calvino. Storia di un fidanzamento e matrimonio tenuti nascosti dal capo di una ditta nella quale lavorano entrambi i protagonisti, lei con le redini in mano e lui con l'accondiscendenza, fotografava la generazione italiana di venticinquenni negli anni '70 che cominciavano a pensare alla casa, a metter su famiglia, costretti a vivere dai genitori per un po', in case piccole dove tutto si condivide, andare al cinema troppo presto, non avere intimità.
E se quel film finiva quando Renzo e Luciana s'erano trovati un posto tutto loro e avevano avviato la vita che li avrebbe portati alla tomba, con tutti i santi giorni uguali uno all'altro, questo film, cinquant'anni dopo, pare ripartire da quando là è comparsa la scritta “fine” e andare avanti mostrandoci ciò che viene dopo: l'arrivo del figlio.
Il punto di contatto tra le due pellicole è anche un altro: quando all'alba uno torna a casa dopo il turno di notte, l'altra si veste e va a lavorare. E così Guido torna a casa la mattina, prepara la colazione, la mette sul vassoio, entra in camera da letto raccontando la storia del santo patrono di quel giorno e fa da sveglia ad Antonia, che apre gli occhi e le labbra e le gambe e accoglie il moroso in tutti i sensi. Poi è tardi, e corre a lavoro. Lei lavora in un'autonoleggio per gli appena arrivati a Roma. Lui lavora come portiere di notte in un lussuoso albergo. Lei è sicilianissima, lui toscanissimo. Lei ha una chitarra e ogni tanto piglia e canta, compone, fa serate - ed è così che si sono conosciuti, mentre lei cantava in un locale. Lui legge in latino e parla in tedesco e tifa Atalanta perché è il nome di una divinità greca associabile grosso modo ad Artemide. Sono, insomma, molto molto diversi, lei estroversa e diretta, rossetto rosso e giacca leopardata, insoddisfazioni personali e paura per il futuro; lui pare che sia scemo ma invece è molto arguto, sa di essere bizzarro e ci ride sopra, parla in latinorum e si accontenta di quello che viene. E questo è il loro film, il loro film d'amore e di tenerezza, di sei anni vissuti insieme lontano dai guai, il loro film che parte come la cronaca di un concepimento e invece poi continua, si disperde, e parla di altro, dai vicini coatti che danno feste di compleanno il giorno della partita ai genitori ammodino tutti composti e premurosi, oppure affaccendati nel fare i piatti e nel pensare al matrimonio.
Il buon Paolo Virzì che ci aveva fregati con Tutta La Vita Davanti (a cui questo film di precari si avvicina più degli altri) e poi, nonostante l'invio americano, era un po' scivolato sul melò con La Prima Cosa Bella, ci regala il suo lavoro forse migliore, quasi perfetto se non fosse per un paio di scene psichedeliche e un pasticcio pre-finale. Ancora una volta prende spunto da un piccolo libro di un autore emergente pubblicato da una piccola casa editrice (come era stato per Il Mondo Deve Sapere di Michela Murgia) e gli cambia il titolo, solo che questa volta chiede all'autore di collaborare alla sceneggiatura. Che però spazia e si allarga ed è sicuramente il più grande punto di forza del film intero: ironica, divertente, straziante in alcuni punti, commovente, dolce, delicata, educata, satirica. E viene retta benissimo da questi due attori apparentemente ignoti ma che sotto sotto sono il protagonista maschile de La Solitudine Dei Numeri Primi, Luca Marinelli (che nei film non si può vedere mentre dal vivo...) e tale Thony, al secolo Federica Caiozzo, cantante indipendentissima italiana che da sola si è scritta e pubblicata il primo album With The Green In My Mouth senza etichetta né manager, questo marzo. (Insieme alla solita scema de Roma bionda, molto meno presente di loro due, che questa volta è Micol Azzurro e non la moglie Micaela Ramazzotti). A Thony Virzì affida anche la musica, le canzoni originali, i momenti di sentimento e di introspezione. Ma alla fine dei titoli di testa, chiude il cerchio con i Virginiana Miller. Che, per chi non lo sapesse, sono il gruppo di cui Simone Lenzi è il cantante. E Simone Lenzi è l'autore della sceneggiatura e del libro da cui questo film è tratto, La Generazione.

martedì 9 ottobre 2012

rimbombamici.



Ted
id., 2012, USA, 106 minuti
Regia: Seth MacFarlane
Sceneggiatura originale: Seth MacFarlane, Alec Sulkin, Wellesley Wild
Soggetto: Seth MacFarlane
Cast: Mark Wahlberg, Mila Kunis, Seth MacFarlane, Joel McHale,
Giovanni Ribisi, Sam J. Jones, Norah Jones, Ryan Reynolds
Voto: 6/ 10
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L'unica commedia presente nella classifica dei dieci film più visti del 2012 (in America) (al primo posto c'è The Avengers) è un film per la televisione quando nevica a Natale: un ragazzetto senza amici né fuori né dentro casa desidera che il suo orsacchiotto appena scartato sia per lui il migliore amico di tutta la vita intera, lo stesso desiderio di Paris Hilton insomma, e la mattina dopo, appena sveglio, non solo non trova il peluche a forma di orso e con papillon nel letto, ma lo trova in piedi verso la cucina che oltre alla programmata frase «ti voglio bene» gli dice anche «sì magari andiamo di là a fare colazione ché mi presento ai tuoi». La reazione dei genitori è meravigliosa, quasi come l'ascesa (a cui non si dà peso) di questo Teddy Bear: invitato ai talk show, star internazionale, negli anni '90 tutti ne parlano. E questo è l'aspetto interessante del soggetto: considerare i peluche come fenomeni passeggeri della televisione, figure di cui si sente la presenza a lungo e di cui poi, crescendo, ci si dimentica. Ma è un aspetto che viene fuori solo dalle interviste a Seth MacFarlane, regista e sceneggiatore e autore e doppiatore dell'orso Teddy - che in una scena dice «mica ho la stessa voce di Peter Griffin». Guardando il film, si capisce solo dell'altro: agli americani piacciono le commedie romantiche un po' dementi come gli American Pie e gli Scary Movie e lo sappiamo perché hanno fatto dieci film di uno e quindici dell'altro, che però, se ci infili una trovata un po' più originale (a scoreggiare è l'orso e non una figa bionda) allora tutto si fa «geniale», «spassosissimo», «divertente».
No. Sulla scia di Mamma Ho Peso L'aereo succede tutto ciò che la mente umana può immaginare - più qualche momento incredibilmente inutile ai fini della trama. Per chi conosce I Griffin, poi, non ci sarà da sorprendersi se ad un tratto qualcuno si mette a fare a botte e la cosa si tira lunga per dei minuti. Come non ci si sorprende davanti ai siparietti-flashback («come quella volta al bar», e si vede la volta al bar). Ma se queste trovate sono il pregio e la firma della serie animata (candidata due anni fa all'Emmy come miglior serie comedy insieme a telefilm con persone vere), al cinema si perde totalmente la poca serietà della cosa, soprattutto perché ci viene aggiunto un completo da capitano e degli effetti sonori imbarazzanti e luci bianche a volontà.
Troppi «ti amo e ti adoro» tra l'ex modello e rapper e candidato all'Oscar Mark Wahlberg e l'ex cigno grigio e amica di letto Mila Kunis e troppo chems per l'orso Ted (e non più Teddy) che inspiegabilmente racimola escort russe, fumo, coca, colloqui di lavoro, promozioni, come se fosse figo come il suo amico ai tempi d'oro. Troppa banalità nella figura del buon Giovanni Ribisi che purtroppo quella faccia c'ha e quelle parti può interpretare, che comprare e inquieta e poi fa ciò che ci aspettiamo. Che poi si conclude in un modo che ci aspettiamo. Perché il film deve finire nel modo in cui ci aspettiamo.
Era stata «la commedia dell'anno» Crazy, Stupid, Love. all'epoca e lo era stata, poi, Le Amiche Della Sposa. Evidentemente agli americani - e a noi che compriamo distribuiamo e vediamo al cinema commedie dell'anno americane - non piace essere sorpresi. E a Seth MacFarlane non piace sorprenderci, neanche infilando il cadavere riesumato di Flash Gordon al quale si dà troppo spazio e il corpo muto e gay di Ryan Reynolds a cui se ne dà troppo poco.
Battute totali che fanno ridere: quattro, e una si capisce solo in lingua originale.

giovedì 4 ottobre 2012

Venezia 69: Francesca Comencini.



Un Giorno Speciale
id., 2012, Italia, 89 minuti
Regia: Francesca Comencini
Sceneggiatura non originale: Francesca Comencini & Giulia Calenda
Basata sul romanzo Il Cielo Con Un Dito di Claudio Bigagli (Garzanti)
Cast: Giulia Valentini, Filippo Scicchitano
Voto: 5.9/ 10
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Finiti i tempi in cui si diceva «Comencini» riferendosi alla buonanima di Luigi regista, sono iniziati i tempi in cui si è cominciato a dire «la Comencini», facendo riferimento, quasi unanimemente, alla figlia Cristina che per l'ultima volta ci ha condotti all'Oscar (ricordiamocelo, con La Bestia Nel Cuore, nel 2006), La Comencini che poi ha sfornato sceneggiature teatrali, romanzi per Feltrinelli, film con Ambra e Fabio Volo. Qualche anno fa, molto dopo che La Comencini aveva bucato il grande schermo con Va' Dove Ti Porta Il Cuore e molto prima che i critici bucassero lei con Quando La Notte, esce al cinema, e fa notizia perché parlava male dell'Italia, un piccolo film molto ben girato che si chiamava A Casa Nostra e si fa ricordare soprattutto per Laura Chiatti (all'epoca agli esordi) che cantava “Ancora Ancora Ancora”. Quel film era di una Comencini, ma non Cristina, no, Francesca, la sorella, sorella anche di un'altra Comencini, Paola, che fa la costumista, e ha pure vinto un David. Sulla scia della sorella maggiore, La Comencini ha iniziato a pubblicare libri (ma per Fandango) ed è finita in concorso a Venezia prima con Lo Spazio Bianco e adesso con questo Un Giorno Speciale, che la commissione del Lido dovrebbe essere denunciata alla polizia per questa scelta.
Il titolo banalotto sottointende una banalotta trama, anzi, banalissima: far succedere tutto in un giorno, dalla mattina alla sera. Il giorno, in realtà, non è particolarmente succoso da documentarlo: una coatta di Roma «subito fuori al Raccordo», dove «succedono cose troppo strane per viverci» e le case sono arlecchine, si sveglia alla mattina mentre la madre invita il marito e il figlio piccolo a fare silenzio perché quella dorme ancora ché è tornata tardi ieri. Poi la trova in piedi, e la prepara a festa: pedicure, smalto, sopracciglia, trucco, parrucco, un vestito tanto corto quanto appariscente ché costa tantissimo «come tutte le cose belle», due tacchi quindici, un giubbottino per non sentir freddo. Vanno fuori ad un bar, arriva un'auto, lei ci sale sopra, mica ancora lo capiamo dove deve andare. Indizio: una vecchina le dice «so che lavori in televisione». E poi lei racconterà all'autista chiacchierone che «vorrebbe fare l'attrice». Ha un appuntamento con l'Onorevole, che la dovrebbe raccomandare al suo agente. Ha un agente, e un'agenzia dove si mangiano sempre le aragoste, che lei pulisce benissimo in un ristorante di lusso, Gusto, che pare una bettola. Insomma. Tutto molto banale. Molto Tre Metri Sopra Il Cielo se non fosse che i due attori sono bravissimi (ad alti e bassi, ma sempre bravi) (e la loro bravura è merito di molte scene d'improvvisazione) e che La Comencini ogni tanto si ricorda di cosa le interessa sul serio, allora Gina racconta di quando un vecchio le ha chiesto un massaggio, le sono arrivate proposte per film hard, fino all'incontro con questo fantomatico Onorevole che ha passato un giorno d'inferno, è così stanco...
La giornata speciale, Gina la passa tutta con l'autista, Filippo Schicchitano, la faccia da schiaffi di Scialla! che qui a malapena pare romano. Se per lui è un ritorno alla commedia, per Giulia Valentini, con cui condivide quasi tutte le scene, è l'esordio. Ed è un buon esordio - praticamente non ci sono altri attori. La sufficienza infatti il film la meriterebbe solo per loro. E per il finale aperto. Ma poi si assiste ad un furto di vestito, a un tramonto tra le rovine di Roma, si torna a casa, ci si siede a scrivere la recensione, e si pensa: ma che cagata di film ha fatto, La Comencini?

i film stranieri/ 1.



Cesare Deve Morire entra ufficialmente nelle liste di tutto il mondo (tipo questa) e diventa il cinquantacinquesimo film scelto per rappresentare l'Italia agli Oscar 2013 (escludendo i dieci anni, dal '47 al '56 in cui furono consegnati annualmente premi onorari, e che vincemmo con Siuscià, Ladri Di Biciclette e Le Mura Di Malapaga). Si tratta della seconda corsa alla statuetta per Paolo e Vittorio Taviani, che nel 1982 vennero scelti con La Notte Di San Lorenzo (Premio Speciale della Giuria a Cannes) ma non furono candidati. Speriamo che, quest'anno, l'Orso d'Oro vinto a Berlino gli porti bene, sulla scia della vittoria dell'anno scorso del capolavoro Una Separazione - e raramente è “il capolavoro” che vince l'Oscar. A proposito di Iran, vittorioso un anno fa, quest'anno lo Stato ha deciso di non partecipare alla gara: il ministro della cultura Mohammad ha optato per il boicottaggio (e la partecipazione a un festival locale) accusando l'Academy di non essere intervenuta nella diffusione del trailer di Innocence Of Muslims, film americano girato in terra americana (a Hollywood) che sarebbe «blasfemo verso il profeta dell'Islam», e sarebbe stato diretto da tale Alan Roberts, ex regista pornografico.
Un anno senza Iran, ma un anno ancora con la Francia. Dopo la tranquillità con cui mandarono La Guerra È Dichiarata l'anno scorso, totalmente a caso, agli 84esimi Academy Awards, tranquilli che tanto c'era The Artist a fare piazza pulita in tutte le categorie, quest'anno ci riprovano (e mi chiedo perché non ci abbiano provato con Piccole Bugie Tra Amici) mandando dalla ruffiana strada del film straniero Quasi Amici (titolo originale: Intouchables) (titolo americano: The Intouchables), film-evento-campione di incassi-record mondiali-vette raggiunte-parole spese, a cui abbiamo regalato pure un David di Donatello, il film «più visto di sempre in Francia dopo Amélie», il film «francese più visto in Italia dal 1997», il film «non in lingua inglese che ha incassato di più nel mondo subito dopo La Città Incantata». Parentesi: alla fiaba del ricco e del povero piaciuta tanto ai francofoli e non, la critica estera e non dà un voto medio di 5.7 su 10 (io avevo arrotondato quasi a sei e mezzo, quanta bontà) mentre il pubblico esagera con 8.3. Dove sta il problema? Il distributore americano Harvey Weinstein ha dichiarato: «mi piacerebbe se Quasi Amici si candidasse anche all'Oscar per il miglior film». Anche solo l'idea mi fa rabbrividire ma a 'sto mondo tutto po' esse.
Troviamo, in questa prima parte dell'infinita lista di film stranieri che sono stati mandati a lottare per la candidatura di gennaio di nove pellicole e successivamente quella di febbraio, la Palma d'Oro Amour, forse il più bel film dell'anno, che meriterebbe la statuetta a entrambi gli attori, la regia, la sceneggiatura.  Ma una giustizia non esiste.
Troviamo, poi, le migliori attrici del veneziano Fill The Void appena recensito, del berlinese Rebelle e di À Perdre La Raison (Un Certain Regard a Cannes), e i pluri-premiati film, il tedesco Barbara e il cileno No con Gabriel García Bernal.

Afghanistan: Syngue Sabour (The Patience Stone) di Atiq Rahimi
Albania: Pharmakon di Joni Shanaj
Algeria: Zabana! di Saïd Ould Khelifa
Argentina: Infancia Clandestina (Clandestine Childhood) di Benjamín Ávila
Armenia: If Onlfy Everyone di Nataliya Belyauskene
Australia: Lore di Cate Shortland
Austria: Amour (Love) di Michel Haneke
Azerbaijan: Buta di Ilgar Najaf
Bangladesh: Ghetuputra Komola (Pleasure Boy Kamola) di Humayun Ahmed
Belgio: À Perdre La Raison (Our Children) di Joachime Lafosse
Bosnia Erzegovina: Djeca (Children Of Sarajevo) di Aida Begic
Brasile: O Palhaço (The Clown) di Selton Mello
Bulgaria: Kecove (Sneakers) di Ivan Vladimirov & Valeri Yordanov
Cambogia: Lost Loves di Chhay Bora
Canada: Rebelle (War Witch) di Kim Nguyen
Cile: No di Pablo Larraín
Cina: Caught In The Web di Chen Kaige
Colombia: El Cartel De Los Sapos di Carlos Moreno
Croazia: Ljudozer Vegetarijanac (Cannibal Vegetarian) di Branca Schmidta
Repubblica Ceca: Vé Stínu (In The Shadow Of The Horse) di David Ondricek
Danimarca: En Kongelig Affære (A Royal Affair) di Nikolaj Arcel
Repubblica Dominicana: Jaque Mate (Check-Mate) di José María Cabral
Estonia: Seenlkäik (Mushrooming) di Toomas Hussar
Finlandia: Puhdistus (Purge) di Antti Jokinen
Francia: Intouchables (Quasi Amici) di Olivier Nakache & Eric Toledano
Georgia: Keep Smiling di Rusudan Chkonia
Germania: Barbara di Christian Petzold
Grecia: Adikos Kosmos (Unfair World) di Filippos Tsitos
Groenlandia: Inuk di Mike Magidson
Hong Kong: Duo Mingjin (Life Without Principle) di Jonnie To
Ungheria: Csak A Szél (Just The Wind) di Benedek Fliegauf
Islanda: Djúpiõ (The Deep) di Balstar Kormákur
India: Barfi! di Anurag Basu
Indonesia: Sang Penari (The Dancer) di Ifa Isfansyah
Israele: Lemale Et Ha'Chalal (Fill The Void) di Rama Burshtein
Italia: Cesare Deve Morire (Cæsar Must Die) di Paolo & Vittorio Taviani

martedì 2 ottobre 2012

big house.



Reality
id., 2012, Italia, 115 minuti
Regia: Matteo Garrone
Soggetto: Massimo Gaudioso & Matteo Garrone
Sceneggiatura: Ugo Chiti, Maurizio Braucci,
Massimo Gaudioso, Matteo Garrone
Cast: Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone,
Nello Iorio, Nunzia Schiano, Rosaria D'Urso, Claudia Gerini
Voto: 8.8/ 10
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Un emozionato Matteo Garrone sale sul palco della cerimonia di chiusura per Cannes 2012 e ringrazia educatamente la giuria per il Gran Premio ricevuto, e se ne va. La giuria, poco dopo, nella conferenza stampa finale, viene sommersa dalle critiche. Tra tutte, spicca: «Reality, unico film italiano in gara, ha vinto il secondo premio più importante perché il presidente di commissione è Nanni Moretti». Nanni Moretti risponde: «Reality non è piaciuto solo a me; abbiamo visto l'eco delle commedie all'italiana ormai defunte».
Reality non può piacere ai francesi, né agli stranieri in generale, non lo capiscono. Non capiscono le piazze del mercato coi pescivendoli che pesano le cozze e arrotondano il prezzo e poi vanno a prendere il caffè nel bar di fianco dove conoscono tutti; non capiscono le truffe ben pensate nel comprare elettrodomestici per posta con lo sconto e rivenderli poi a prezzo intero in negozio; non capiscono perché le Maria diventano Mary; non fanno caso al carrello della spesa, al centro commerciale, che nonostante sia trascinato da una famiglia molto larga e per niente ricca è strabordante di ogni cosa, sommerso, perché le famiglie da noi funziona che meno hanno e più spendono. Non capiscono il napoletano, e non capiscono come può essere che a Napoli ci sia la malavita di Gomorra e allo stesso tempo della gente che pensa ad altro, alla fama e alla gloria e al successo piovuto dal cielo, che non viene intaccato da questo tipo di problemi. Non capiscono come un regista possa esser riuscito a cambiare registro così in fretta.
Il problema di Reality è che non può essere capito neanche da due fette di italiani: quelli che sono esattamente ciò di cui il film parla, famiglie larghe e allargate che non arrivano a fine mese ma spendono e spandono e organizzano matrimoni in ville rococò con ingressi cavallereschi, fontane in piscina, partecipazioni di starlette, centinaia di ospiti vestiti a lustrini e paillettes; e poi non può essere capito da chi sta ai poli opposti, i critici cinematografici diventati tali per pochi studi e molti stipendi, gli arrivisti, gli arrivati, quelli che nelle ville rococò ci sono cresciuti e/o in età adulta se le sono comprate.
Reality, che si chiama così perché parla allo stesso tempo di un reality ma anche della realtà pura e propria, può essere capito solo dagli italiani che stanno esattamente in mezzo a queste due realtà; quegli studenti che dal paese sono andati alla metropoli, hanno abbandonato le porte aperte nei vicoli bianchi dal profumo di pomodoro e hanno conosciuto i coetanei proiettati nell'Europa, nella carriera, nell'autorealizzazione, guardando in una e nell'altra città sfilate di adolescenti con camicia nei pantaloni, bicipiti stretti nelle maniche, cintura con fibbia più grossa della tasca e maniche della Polo arrotolate intorno al collo, tutti stretti in locali troppo cari dove magari si finiva allo stesso tavolo prenotato (+ spumante) di un paparazzo o un paparazzato.
E nel suo essere crudelmente reale (finale - ahimè - escluso), Reality è poi un atto d'amore al nostro cinema italiano che un tempo anche i francesi e gli stranieri tutti capivano: queste incursioni televisive asfissianti e la vita del dietro-le-quinte del triste e satirico Ginger E Fred di Fellini, l'ambizione ribaltata nei figli verso il padre di un successo meritato a tutti i costi di Bellissima di Visconti, la Napoli tutta croste e crepe delle case bianche così in contrasto coi colori nei vestiti e i coloriti dialoghi di mezza filmografia della Loren e di De Sica, e ancora Fellini, nella scena della Via Crucis, citato per la caotica processione de Le Notti Di Cabiria. E poi che fotografia! Che colonna sonora inquietantemente fiabesca (del candidato all'Oscar Alexandre Desplat)! Che immensa interpretazione del protagonista maschile (ed ex carcerato) Aniello Arena e di tutti i suoi co-protagonisti, scelte azzeccatissime, anacronisticamente mai visti e più bravi di molte facce note, come a voler sottolineare ciò che il film sottointende.