sabato 24 novembre 2012

la Seine et moi.



Un Mostro A Parigi
Un Monstre À Paris, 2011, Francia, 89 minuti
Regia: Bibo Bergeron
Sceneggiatura originale: Bibo Bergeron & Stéphane Kazandjian
Voci originali: Vanessa Paradis, Gad Elmaleh,
Sébastien Desjours,
Mathieu Chedid, François Cluzet
Voci italiane: Arisa, Enrico Brignano, Enzo De Caro,
Raf, Maurizio Mattioli
Voto: 7.9/ 10
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Che musica, ragazzi!
Mathieu Chedid, col nomignolo -M-, firma una colonna sonora che mischia i tanghi francesi ai fischi western alle chitarre country, i violini dei locali pas-élégants degli anni '20, il piano muto, le voci angeliche, la voce sua accompagnata dalla sua chitarra (o da un pettinino). Colonna sonora che, candidata ai César l'anno scorso, ha perso contro The Artist (e il film, pure candidato come film d'animazione, ha perso contro Il Gatto Del Rabbino in lizza per questi Oscar). Colonna sonora che eleva il film buono già di suo.
Nella migliore tradizione ottocentesca francese, si comincia con un personaggio che non è il protagonista (succede lo stesso in Madame Bovary romanzo): Émile, nanetto sognatore che lavora in un cinematografo e ai film dedica tutta la sua esistenza; gira la manovella, immagina i suoi giorni migliori, raccatta le pellicole di Mélies. Questo Émile ha un amico, Raoul, col quale forma la coppia Sherlock - Watson, lungo e sottile al suo contrario, con un camioncino dal nome femminile e rifornimenti nel portabagagli che smercia di mestiere. Entrambi, finiranno nella specie di serra di un ignoto inventore che non vedremo mai, che ha lasciato tutto in mano alla sua scimmia fidata, che invita i due visitatori a non entrare, a non toccar niente, a non mischiare le pozioni, a non riprendere con la cinepresa. E invece questi fanno ogni cosa, Raoul soprattutto, che versa, scodella e mischia, fa scoppiare un polverone dal quale una strana creatura pelosa zompa in alto, uscendosene dal tetto.
I due, insieme alla fidata scimmia, fingeranno che non sia successo niente, ma questo mostro che si aggira per Parigi comincia a spaventare madames et monsieurs che fanno ricorso al prefetto Maynott doppiato in originale dal François Cluzet di Quasi Amici e Piccole Bugie Tra Amici e in italiano dal televisivo Enzo De Caro. E mentre il prefetto coglie al balzo l'occasione per sottolineare al popolo la sua autorità e il suo ruolo, la chanteuse Lucille, ali e voce d'angelo delle serate mondane, sarà l'unica a non spaventarsi della pulce gigante, soprattutto perché questa ha in sé un dono, quello della musica, che riesce a far uscire da qualsiasi cosa.
La suddetta performer, che in Francia aveva voce e sospiri di Vanessa Paradis, nel Bel Paese ha bassi e alti della nazionale Arisa che da qualche tempo si avvicina al cinema soprattutto se è musicato (Tutta Colpa Della Musica); lodevole nelle esibizioni canore, un po' meno nella parte recitata per colpa di una voce che ben conosciamo, ma certo è molto meglio di tanti altri personaggi scelti per doppiare cartoni negli ultimi anni (leggi: Belén Rodriguez). Accompagnatore alla chitarra è Raf, che non parla mai ma gorgheggia bene perché malinconico, mentre Enrico Brignano, che diciamo non è proprio uno preso dalla strada, è quello che ne esce meglio, sia per sé che per il personaggio.
Dietro la macchina da presa c'è il regista di Shark Tale Bibo Bergeron che di esperienza ne ha abbastanza: animatore di Babar, Pippo, Sinbad, creatore dei personaggi di Bee Movie, non ha lasciato il segno nella storia dell'animazione ma è evidentemente piaciuto molto a Luc Besson che ha deciso di produrlo. Il loro prodotto è un film molto ben fatto, curato tanto nei costumi quanto nelle scene, nelle ambientazioni francesi, nei manifesti attaccati ai muri delle boulangeries, che pare - come tutti i cartoni - avere mille citazioni e mille riferimenti. Soprattutto al mondo Disney: Lucille e Francœur sono una Belle e una Bestia ribaltati, che vedono uno nell'anima dell'altra ma non si ameranno alla fine - perché, come nel Gobbo Di Notre-Dame, avrà la meglio il non-mostro; il loro Gaston è un omaccione con la pistoletta in mano che vuole tanto la gloria quanto la bella, ed è disposto a far tutto, anche a sparare. Scaleranno, tutti quanti, la Tour Eiffel come la tradizione di King Kong vuole, e saranno salvati da un fiore gigante che nasce però non da un fagiolo. E tra le maschere che Lucille prova sul mostro per non essere riconosciuto, c'è anche il doppio corno di Malefica...
Peccato per la stupidotta locandina; la colonna sonora ha copertina migliore, per non parlare dell'interno.

sei calda come i baci che ho perduto.



E La Chiamano Estate
id., 2012, Italia, 89 minuti
Regia: Paolo Franchi
Sceneggiatura originale: Paolo Franchi, Daniela Caselli,
Rinaldo Rocco, Heidrun Schleef
Soggetto: Paolo Franchi
Cast: Jean-Marc Barr, Isabella Ferrari, Filippo Nigro,
Christian Burruano, Eva Riccobono, Luca Argentero, Romina Carrisi
Voto: 5.5/ 10
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«E la chiamano estate/ questa estate/ senza te» cantava Bruno Martino nel '65, e canta ancora adesso, mentre la luna si riflette in un mare velocizzato ma inquadrato lentissimamente, mentre le piccole onde senza vento si screpolano sulla sabbia, di notte, e forse Isabella Ferrari le sta a guardare, o forse sta dormendo, nuda a gambe larghe con una camicia da notte bianca, vicino all'uomo che ama e che la ama, forse, o forse sono entrambi in spiaggia, una in piedi e l'altro seduto, alla fine di questa storia, all'inizio.
Chi lo sa.
Il primo film che Nicoletta Mantovani (primo nome che compare sullo schermo nero) produce con la compagnia che porta il nome del defunto marito Luciano, è un puzzle i cui pezzi si incastrano magistralmente non per forza con un simile soltanto: ogni scena - dopo che se n'è capito il meccanismo - potrebbe essere la seguente della precedente o la precedente della successiva oppure molto antecedente o totalmente finale, pregna di senso in quel determinato contesto e poi ripresa, rimostrata poco dopo, decontestualizzata e ricontestualizzata.
Bene, nonostante queste tre righe, questo non è un film di logica né di semiotica; è un film di un uomo e una donna che si amano ma qualcosa non va. Lui, che si chiama Dino, è l'esatto opposto dello stesso personaggio moraviano de La Noia che per sconfiggere “l'assenza di rapporto” si buttava tra le braccia di una mezza sconosciuta interrogandola continuamente e pedinandola sospettando il tradimento. Questo Dino è molto simile e molto diverso, perché la sua Anna (la Ferrari) non riesce a toccarla e sa benissimo che lei non lo tradisce, e quindi va alla composta ricerca dei suoi ex amanti per spingerli di nuovo nelle di lei braccia. Tutti rifiuteranno, soprattutto un Luca Argentero in splendida forma che recita poco poco ma recita bene bene.
Intanto, è un mare di bianco, un mare di luci bianche, splendori nella casa e per le strada e sulle lenzuola bianche, sulle camicie bianche, su tutto ciò che è intorno che è bianco o molto chiaro, sui tavoli col rossetto ben disposto e i libri ordinati, su una sala che non viene mai usata, una cucina mai inquadrata. È un'estate molto diversa da quella che i film siciliani ci hanno sempre mostrato (dal Gattopardo a Baaria) perché è un'estate (in una città anch'essa bianca, che mi pare di aver riconosciuto in Ostuni) estremamente elegante quasi da diventar algida, asettica, distaccata tanto da noi quanto dagli attori. Per gran parte del film, questi personaggi sono figure prese da tutto questo bianco, mostrate, e poi rimesse là, irreali, senza ambiente, senza “rapporto”. Poi si scopre che Dino fa l'anestesista e Anna sospettiamo venda divani, e mentre sono a lavoro il bianco non c'è più. Poi si scopre che Dino ha fatto qualcosa per cui Anna va da uno psichiatra, e forse Dino la sente parlare, o forse no. Per colmare la sua sete di carne, poi, Dino va da Filippo Nigro, incontrato in un locale di scambisti, nel quale il film mostra ciò che gli italiani non vorrebbero vedere mai (sesso orale, orge) ma che fanno abitualmente (ed è cosa lodevole, che un film finalmente le mostri). Anna trova sul cellulare del compagno alcuni video di questi tradimenti, perché Dino è ossessionato dal girare video, e ne esce distrutta. O forse no.
Isabella Ferrari, quindi, che mostra la sua venerea fessura nella scena due e poi varie altre parti di sé per tutto il tempo, è una di quelle attrici che anche se cantasse nella spazzatura a noi piacerebbe alla follia. In questo borghese e cervellotico viaggio che forse ricalca Eyes Wide Shut o forse no, è accompagnata da un Jean-Marc Barr maturo e a suo agio e doppiato molto bene da Adriano Giannini. Ma è stata solo lei, alla Festa del Cinema di Roma, a vincere il Premio per la Migliore Interpretazione Femminile, dopo che Paolo Franchi (autore del film e regista di sole altre due pellicole) ha ritirato quello alla Regia smuovendo i fischi e i boati generali. Critiche che come sempre sono esagerate ma come quasi sempre hanno ragione: il film sarebbe un capolavoro se avesse un diverso approccio all'immagine e/o alla narrazione. Se decidesse di essere completamente estetico o completamente psicologico. Invece sta a metà. Ma che musiche magistrali.

giovedì 22 novembre 2012

la caccia.



Il Sospetto
Jagten, 2012, Danimarca, 115 minuti
Regia: Thomas Vinterberg
Sceneggiatura originale: Thomas Vinterberg & Tobias Lindholm
Cast: Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Annika Wedderkopp,
Lasse Fogelstrøm, Susse Wold, Alexandra Rapaport
Voto: 8.1/ 10
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«I bambini non mentono mai», dicono spesso nel mezzo del film. I bambini, poi si dice, non mentono mai ma ogni tanto sì, e noi arrotondiamo per eccesso e ai bambini crediamo sempre; e questa volta, che una bambina mente, viene creduta; e questo film, è la storia di una bugia.
Secondo assioma fondamentale dietro alla pellicola è: l'abuso sessuale su un bambino è la peggior mossa che un uomo adulto possa fare; e di conseguenza deve essere punita. Scontata, prima di tutto, a livello sociale (persino in Desperate Housewives c'hanno messo un pedofilo - termine che qui non viene usato mai - contro la casa del quale veniva lanciato, giustamente, di tutto).
Dopo il non-tanto-diverso Festen che dal '98 ad oggi l'ha etichettato, Thomas Vinterberg mette insieme questi due temi e li mischia nel più tremendo dei modi: un uomo adulto, divorziato e con un figlio adolescente che vede due giorni sì e dodici no (e che lui per primo vorrebbe stare di più col padre) lavora in un asilo senza fare il maestro, un asilo sperduto tra i boschi pieni di cervi della Danimarca. Lucas, quest'uomo adulto, riesce a incastrare perfettamente il mestiere di non-maestro con la vita di persona matura che può bere birra fino al collasso (ma non lo fa) e può uscire con una donna per farci sesso (e lo fa). Ha un migliore amico, compagno di “giri in motorino e mele rubate” con cui sforna torte da non toccare e mangia lasagne alla domenica. Questo suo migliore amico ha una figlia, Clara, che va nell'asilo dove lui lavora, che non pesta le strisce delle mattonelle e non riesce a non ascoltare i genitori che litigano. Questa Clara, che come tutte le bambine perde la testa per un uomo adulto, è colei che racconterà la bugia: riciclando le parole del fratello e dei suoi amici che guardavano foto porno sull'iPad, per vendicarsi di un regalo non accettato dirà alla direttrice dell'istituto che «Lucas ha il pisello» e «il suo pisello mira dritto al cielo», è «un'asta».
La direttrice ne esce scossa nel primo momento, sconvolta nel secondo, megalomane per il resto della pellicola. Chiama a rapporto le altre maestre, poi i genitori dei bambini, poi la polizia. Lucas che è un animo pacato e non riesce neanche ad avere la meglio con l'ex moglie reagisce pacatamente, si fa insultare, pestare, arrestare, e sbotta nel momento peggiore di dicembre. È questo che ci fa arrabbiare, più di tutto: non tanto la diceria paesana o i comportamenti dei vicini quanto la sua apparente asetticità alla cosa. Persino il figlio, giunto da lontano, non riuscirà a controllare l'ira e sputerà la saliva più meritata della storia del cinema in faccia alla bambina.
Vi svelo il finale quindi non leggete se non volete saperlo: finisce bene. Ed è questo suo finir bene che fa perdere molti, troppi punti al film. Questo tacere su un anno che passa per far tornare tutto alla normalità, una normalità in realtà amara, col perdono in bocca di chi deve perdonare per forza, questa patetica amicizia in cui basta guardarsi in faccia per capire se è vero.
Poi però arriva la scena finale, la caccia del titolo, e l'attenzione si rialza, e il caso si riapre.
Prova magistrale da attore per Mads Mikkelsen, meritatissima Palma d'Oro come migliore attore allo scorso Cannes e ormai già star internazionale (era anche in uno degli ultimi James Bond col nostro Giancarlo Giannini) che si fa consacrare con un film nella sua terra, che parla della sua terra, dei paesotti della sua terra, dei cervi morti, dei fucili ereditati. La caccia finale per la quale è pronto il figlio Marcus è anche La Caccia del titolo inglese e il movimento centrale del film: una ricerca della verità, se esiste, o di un colpevole, se c'è. Ma non basta. Il film avrebbe potuto essere di più: più crudele, più straziante, più sviluppato, più iracondo. Spesso il cinema ha toccato questo argomento riuscendoci molto male o discretamente (The Woodsman) perché non è certo un tema facile. Ma avete mai visto Little Children?

mercoledì 21 novembre 2012

il pino solitario.



Ruby Sparks
id., 2012, USA, 104 minuti
Regia: Jonathan Dayton & Valerie Faris
Sceneggiatura originale: Zoe Kazan
Cast: Paul Dano, Zoe Kazan, Chris Messina, Elliott Gould,
Annette Bening, Antonio Banderas, Steve Coogan
Voto: 7.7/ 10
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Fare molto bene una cosa dà sempre poi questo problema: gli altri si aspettano che venga bene anche la successiva. Così è con gli esordienti che pubblicano romanzi, che incidono dischi, coi registi. La coppia Jonathan Dayton - Valerie Faris che ha sempre lavorato affiatata ai primi progetti (documentari, cortometraggi, video musicali, episodi di telefilm) ha poi decido di esordire nel mondo del cinema con una perlina, il Little Miss Sunshine a cui darei pienamente nove, e quindi su di loro cala questo grasso problema: dopo quello - due Oscar, alla sceneggiatura e all'attore non protagonista - faranno un altro capolavoro o una ciofeca?
La risposta sta a metà. Innanzitutto, la squadra vincente è cambiata tutta tranne il bravo e bizzarro Paul Dano, che in quel film era volontariamente muto mentre in questo parla e scrive pure. È giovane, un po' goffo, ed è famoso ai più per aver pubblicato un primo romanzo passato alla storia, che ha scalato le classifiche, che gli ha permesso di vivere in una casetta a due piani ben arredata. Ma ha portato, anche, l'isolamento e la solitudine, fatta eccezione per il fratello Chris Messina molto più normale di lui, che ogni tanto lo invita ai barbecue insieme al cane. Calvin (Dano) è finito pure con l'andare assiduamente da uno strizzacervelli, al quale racconta di questa specie di sogno ricorrente: una ragazza controluce, una figura che ogni tanto parla, dice qualcosa, una volta è in un parco che disegna. Dice di chiamarsi Ruby, è bellissima, Calvin sogna anche di mangiarci insieme e poi saltare in piscina...
Fino al giorno in cui ci pranza insieme per davvero. Pare infatti che lo scrivere della ragazza porti la ragazza ad esistere davvero. Che le si dica (scriva) di saltare, di parlare in francese, di urlare «sei un genio» (termine che a Calvin non piace molto, ed è meritevole di lode), Ruby fa qualsiasi cosa. Sente nostalgia, si allontana, ritorna.
Dopo una difficile accettazione della ragazza in carne sia da parte di Calvin che da parte di suo fratello, si decide per il passo successivo: andare a conoscere la famiglia, composta da una natur(al)ista Annette Bening (che rinnova il personaggio di Correndo Con Le Forbici In Mano con una folta chioma) sempre bravissima e da un cliché ispanico, Antonio Banderas, anche lui mezzo hippy e intagliatore di sedie nel legno.
La coppia vive la sua favola tra alti e bassi fino a questa scena di totale follia che vorrebbe spostare tutto sul dramma emotivo e invece infastidisce e basta: chiassosa, lunghissima, sadica. La tempesta prima della pace e del finale prevedibile.
La coppia di registi, quindi, passa l'esame per un pelo. Lo passa a pieni voti, invece, Dano sempre azzeccato per i ruoli un po' più profondi - diciamo così - e soprattutto viene promossa questa Zoe Kazan che oltre a interpretare il ruolo della protagonista (con magrezza e vestiti addosso tipici del suo personaggio) compare anche come sceneggiatrice e ideatrice del film, dopo piccoli ruoli in film come È Complicato e Revolutionary Road. Ed è proprio per la storia - non così originale, assolutamente: l'ultimo Vero Come La Finzione aveva fatto quasi la stessa cosa - che deve essere lodata, e per la pronuncia francese.
La saga familiare con punte di follia viene messa in un piccolo angolo e portata all'eccesso, dunque, per far spazio a un'altra figura cardine del cinema americano: lo scrittore. Da qui, potete capire sia la locandina originale (sopra), sia quella italiana (qui). Altra prelibatezza del cinema americano: il cane co-protagonista.

giovedì 15 novembre 2012

cosa siete venuti a vedere.



Red Lights
id., 2012, USA, 113 minuti
Regia: Rodrigo Cortés
Sceneggiatura originale: Rodrigo Cortés
Cast: Cillian Murphy, Robert De Niro, Elizabeth Olsen,
Sigourney Weaver, Toby Jones, Joely Richardson
Voto: 6.8/ 10
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Le “red lights” sono le metaforiche luci rosse nelle folle, persone che si comportano in modo sospetto fuori dai teatri in cui sta per andare in scena lo spettacolo di un mago o sensitivo.
La Sigourney Weaver di Avatar e prima di Alien allora se ne sta in macchina insieme alla giovane (e brava, e bella) Elizabeth Olsen a fotografare queste identità dubbiose prima di entrare in sala e cominciare a lavorare, mentre Cillian Murphy, fuori, con la sua faccia da pazzo di sempre si aggira tra i passanti e ruba ora il portafogli ora il passaporto. Il loro mestiere è questo: smascherare gli impostori. Ma non come fa Batman o la polizia: loro si affidano al raziocinio umano, a leggi scientifiche, sono un fisico e una psicologa che lavorano molto poco come privati e ancora meno come dipendenti statali e arrancano cercando di portare la ragione nelle case degli americani. Gente che se ne sta davanti al televisore a bere tutto ciò che viene detto, tutto ciò che viene mostrato: cucchiai piegati, tumori guariti, corpi levitati.
La Weaver ha un passato burrascoso di cui ci parla poco (e male), Murphy è giovane e pieno di entusiasmo, la Olsen fa la parte della fidanzatina di lui, prima studentessa poi alzata ad aiutante grazie ai poteri del letto, doppiata come un cane e diretta ancora peggio. Loro tre, più un altro nerd che raccatteranno alla fine, passeranno più della metà del film a lavorare sul più celebre sensitivo dello Stato, Robert “Silver” De Niro, apparentemente cieco e intonso, che pare non usi trucchi di nessun tipo e che si era ritirato dalle scene quindici anni fa dopo uno spettacolo finito in tragedia. Questo decide di tornare, e questi (soprattutto Cillian) decidono di scoprire dove sta il trucco, mentre una equipe di medici (che i fondi dallo Stato li prendono a palate) dimostra con video che il mago è mago per davvero.
Dopo il claustrofobico Buried tanto piaciuto a una cera stampa che si emoziona con poco, costato pochissimo e lodevole dal punto di vista dell'idea di base ma carente col passare di questi novanta minuti che sfociavano nel nulla, Rodrigo Cortés torna nelle nostre sale con un altro prodotto da lui scritto diretto e montato (nel frattempo ha anche sceneggiato l'horror Emergo) e per rifarsi di quell'altra esperienza chiama a sé attori su attori che si muovono in scene su scene e si inseguono, si nascondono, si scazzottano. Pare, ed è chiaro soprattutto con la scena del teatro finale, che voglia semplicemente omaggiare un filmone venuto prima di lui, capolavoro indiscusso di Christopher Nolan, che si chiama The Prestige, in cui pure c'era da una parte il mago mago e dall'altra il mago impostore di cui venivano mostrati tutti i trucchi e gli arnesi. Ma se quello era un film tutto cerebrale impeccabilmente scritto e ben montato, questo si piega di più ai gusti del pubblico U.S.A. che tanto apprezza l'horror paranormale e la science-fiction di C.S.I. e Criminal Minds, infatti vediamo deliri notturni, incubi che fluttuano, luce che se ne va, uccelli che si schiantano contro il vetro, gente in camice che avanza ipotesi.
Voto che oscilla tra poco meno e poco più del sette perché ora si riprende con un colpo di scena ora si accascia con un'apocalisse ingiustificata, ora si compone di personaggi stereotipati (tipo l'algida assistente del mago che pare sempre nascondere qualcosa) ora si salva con personaggi che spuntano dal nulla. Un'idea che poteva essere sviluppata molto peggio, sfociando nel demenziale grottesco, ma anche molto meglio, perché questi ricercatori di fenomeni paranormali io neanche sapevo esistessero.

mercoledì 14 novembre 2012

Bari caput mundi.



La Nave Dolce
id., 2012, Italia, 90 minuti
Regia: Daniele Vicari
Sceneggiatura: Antonella Gaeta, Daniele Vicari e Benedetto Atria
Soggetto: Luigi De Luca, Silvio Maselli, Antonella Gaeta, Daniele Vicari
Cast: Eva Karafili, Agron Sula, Halim Milaqi, Kledi Kadiu,
Robert Budina, Giuseppe Belviso, Fortunata Dell'Orzo, Raffaele Nigro
Voto: 7.8/ 10
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«Accogliamo il nostro nuovo compagno di classe Dennis che ora si presenterà raccontandoci un po' di lui e del Paese da dove viene, va bene Dennis?» chiede la maestra Loredana a questo omaccione che pare uno di terza media e che invece da oggi sarà in classe con me, in quarta elementare, e Dennis ci racconta di quanto dista il suo paesino da Tirana e mi fa scoprire - con non poco sgomento - che le macchine, in Albania, ce le hanno pochissime persone, tendenzialmente quelli che contrabbandano sigarette e altri di lavori affini.
Era il 1998 ed eravamo a Brindisi; il film di Daniele Vicari si sposta un po' più su, a Bari, e un po' prima, nel 1991.
È l'8 agosto: si sparge la voce, dall'altra parte del Mar Adriatico, che da Durazzo sta per partire una nave gigantesca carica di tonnellate di zucchero. Si dice che toccherà le coste dell'Italia, e gli albanesi, giungendo da ogni dove, si mettono a correre perché non hanno la macchina, o pigliano la bici, e giungono al porto, e vedono questo colosso di ferro e ci salgono sopra, si arrampicano, funamboli senza circo ma con grandi speranze. Salgono lasciando le madri a casa, i parenti a terra, salgono senza preavviso, senza piani, senza logica: salgono. Si ritrovano ad essere circa ventimila. E come tutte le comunità con davanti il futuro rosa (gli albanesi hanno per anni visto la nostra televisione, parlato l'italiano, pensato che da noi ci fosse il benessere) creano una solidarietà più che patriottica e allora, nonostante non ci siano centimetri quadrati vuoti sul pavimento, né acqua né cibo né ripari dal sole, si arrangiano come possono e salutano il porto di Brindisi prima che il comandante, consapevole del carico non solo solubile del suo barcone, viene costretto a girare per Bari. E a Bari, la nave arriva. Attesa da Croce Rossa, polizia, volontari, attracca al porto e lascia scendere questo mare di teste e corpi e aspettative e lo trattiene là, in attesa di nuovo ordine. Si pensa di costruire delle temporanee tendopoli sulla banchina, dove una nave di carbone è da poco passata e dove gli uomini e le donne e soprattutto i ragazzi si stanno impiastrando di nero; si decide per il trasporto, attraverso pullman di linea, allo stadio della città.
Ventimila stranieri chiusi (letteralmente sigillati dall'esterno) in uno stadio, un miscuglio di poveretti e malavitosi, ancora senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, con un elicottero che ogni tanto passa sulle loro teste, diventano ben presto una fattoria Orwelliana, dove il maiale comanda e si torna inconsciamente a ciò che si è perso.
Poi il Presidente della Repubblica scende a Bari e si infuria con la stampa sottolineando che farà espellere il sindaco in quanto “avventato” nell'accoglienza data a queste persone.
Nello stesso anno, Daniele Vicari si gira i festival di Berlino e Venezia con due pezzi di storia dell'Italia recente messi nel dimenticatoio. Se Diaz era un vero e proprio film, però, che ricostruiva le scene per amalgamarsi al materiale di repertorio, questo abbandona la fittizia narrazione e si concede alle più disparate immagini girate da Telenorba e mai usate che vengono contestualizzate e alternate alle figure su fondo bianco di chi su quella nave c'era, dal comandante costretto a partire all'ormai celebre Kledi Kadiu, passando poi per chi ha operato a Bari, chi è dovuto tornare in Albania e poi è ripartito.
Anche questa volta riesce a confezionare una pellicola completamente priva di giudizi morali, che non mette in bocca niente alle persone e, fatta eccezione per qualche aggettivo, mostra la vicenda così com'è andata facendoci pensare “poveri albanesi” per tutto il tempo ma poi mostrandoci la devastazione che hanno lasciato nello stadio (com'è stato per i black block nell'altro film). Asciutto, non prolisso, non retorico. Peccato solo per questo schermo che si rimpicciolisce e ci fa vedere, dei volti, solo i dettagli.

sabato 10 novembre 2012

Disney Inn.



Hotel Transylvania
id., 2012, USA, 89 minuti
Regia: Genndy Tartakovsky
Sceneggiatura originale: Peter Baynham & Robert Smigel
Soggetto: Todd Durham, Dan Hageman e Kevin Hageman
Voci originali: Adam Sandler, Andy Samberg, Selena Gomez,
Kevin James, Fran Drescher, Steve Buscemi, CeeLo Green
Voci italiane: Claudio Bisio, Davide Perino, Cristiana Capotondi,
Paolo Marchese, Graziella Polesinanti, Luca Dal Fabbro, Luigi Ferrario
Voto: 6.9/ 10
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Se avete presente anche solo lontanamente chi è stato Carletto dieci anni fa, non potrà non saltarvi alla mente come prima idea nel vedere il Conte Dracula, Frankenstein, il lupo mannaro e un umano nella stessa scena, nella stessa casa. Ma i riferimenti (volontari o no?) sono in realtà molti di più, ed uno di essi alla fine viene esplicitamente mostrato in una versione animata del Twilight strazio con protagonista mezzo nudo e muscolosissimo («ecco come ci disegnano», dice sconsolato il Conte Pipistrello).
Perché siamo di fronte all'ennesima Sirenetta che non può amare Eric in quanto lei mezza pesce e lui tutto umano, di fronte a Belle che nonostante umana riesce ad amare Adam la Bestia, di fronte a Mulan eroina post-romantica che come la Sirenetta si sente “diversa” dagli altri e non sa se la sua diversità sia un bene o un male, di fronte a Nemo che litiga col padre o, maglio, a Merida che litiga con la madre.
Temi (la diversità, l'amore impossibile, il rapporto padre-figlio) che anche i peggio cartoni (L'apetta Giulia E La Signora Vita) hanno portato sullo schermo e, purtroppo, continueranno a farlo (Pixar inclusa?). Ma de La Sirenetta c'è anche un'altra cosa: la scoperta del mondo, la curiosità verso tutti i luoghi che non si possono vedere, che non si possono raggiungere, perché, da quando la madre Marta è morta, la appena centenaria Mavis figlia del Conte Dracula di Transylvania è sempre rimasta chiusa nel castello di famiglia appiccicata al padre e alla servitù e, una volta all'anno, a tutta una serie di simpatici ospiti giunti a festeggiare il di lei compleanno. Per queste calate cadenzate, il padre decide allora, quando la figlia è ancora in fasce, di far costruire una sorta di residence, un hotel maestoso, dove gli ospiti poco avvezzi alla vita urbana possano rifugiarsi per salvarsi dalle crudeltà umane.
Paradosso: guardiamo un cartone animato privo di “cattivi” dove i cattivi per eccellenza sono in realtà vittime di gente banale - credono loro - che morde i piedi, ruba biscotti, trafigge cuori, impaletta. Questo terrore generale tra i mostri ha portato la razza a non uscire più in strada e a non scoprire che, in realtà, le persone pensano alle loro cose, ingrassano, girano col cane, e da mostri si travestono alle feste.
Succede che, per il compleanno più importante della ragazzina, il 118esimo, nell'hotel di famiglia già tutto riempito di pezzi di zombie, coppie di scheletri, figli di lupi, esseri gelatinosi, compare tale Johnny venuto dal mondo umano col suo zaino da tedesco in spalla e la conoscenza dei continenti interi. Verrà mascherato e nascosto e smascherato, ma...
L'animatore di casa Cartoon Network Genndy Tartakovsky abbandona le defunte Superchicche, Samurai Jack, Il Laboratorio Di Dexter che gli hanno fatto vincere numerosi Emmy e Annie e si concede alla Columbia di casa Sony per dirigere una pellicola scritta da due esperti di comicità americana, Peter Baynham (collaboratore di Sacha Baron Cohen e sceneggiatore del bel Arthur Christmas) e Robert Smigel (autore del Saturday Night Live), che non fanno grandi sforzi e ci fanno ridere quando devono, per i luoghi comuni sui mostri o per la loro improvvisa ridicolezza nel contesto.
Miracolosamente, gli intrufolati al doppiaggio italiano (Claudio Bisio che ormai ha fatto l'abitudine, Cristiana Capotondi) non ci fanno rabbrividire ma certo sarebbe stato meglio sentire l'originale Fran Drescher (ve la ricordate?) insieme all'infante Selena Gomez e a CeeLo Green nell'imbarazzante canzone finale “Zing”.
Nessuna fretta di correre al cinema: presto sarà su Italia 1.

giovedì 8 novembre 2012

thank you Canada.



Argo
id., 2012, USA, 120 minuti
Regia: Ben Affleck
Sceneggiatura non originale: Chris Terrio
Basata sugli articoli di Joshuah Bearman
Cast: Ben Affleck, Brian Cranston, John Goodman, Alan Arkin,
Victor Garber, Tate Donovan, Clea DuVall, Scoot McNairy
Voto: 8.6/ 10
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1977: Star Wars ha creato dietro di sé una schiera di fan(atici) che hanno creato, davanti a loro, l'industria della copia-risposta che manda al cinema (e prima dei cinema ai produttori) film di dubbia qualità artistica ambientati su pianeti dall'aspetto esotico con alieni dall'aspetto horror e protagoniste dall'aspetto Playboy. In America. Perché nelle altre parti del mondo, invece, la gente ha altro a cui pensare. Tipo: l'Iran, che ha appena salutato un periodo di splendore in cui il suo petrolio era fonte di guadagno per se stesso, si ritrova con un giovinotto sprecone al governo che fa morire il popolo di fame e l'ammazza andandosene poi in America ad ammalarsi di cancro e non potersi spostare.
1979: gli iraniani s'incazzano e, lo sappiamo come sono fatti, scendono in piazza e se la prendono con tutti gli occidentali, tutti i giornalisti, tutte le spie; assalgono l'ambasciata americana, fanno ostaggi cinquantadue persone, minacciano di appenderli alle gru se il loro capo di Stato non si decide a tornare - per essere ben accolto. Dall'edificio, da una porta secondaria, sei americani riescono a fuggire, e si nascondono per più di un mese nella casa dell'ambasciatore canadese a Theran. Ambasciatore che ha moglie cinese e governante iraniana...
La C.I.A. intanto chiama a rapporto Tony Mendez, esperto in prelievi di persone da territori stranieri, bisogna inventarsi qualcosa, questi americani se vanno in aereoporto vengono ghigliottinati, se gli diamo le biciclette arrivano spossati, se si fingono insegnanti non vengono creduti... E intanto il tempo passa, gli ostaggi restano prigionieri (ci resteranno 444 giorni) e la Casa Bianca si vede costretta ad approvare la realizzazione di un finto film con, tra gli altri, il premio Oscar John Chambers (per il contributo tecnico-artistico ne Il Pianeta Delle Scimmie, 1968).
E questo non è il film; è storia vera.
Ben Affleck (che compare sulla locandina stranamente come “il regista di The Town” e non semplicemente “Ben Affleck”) dirige e interpreta (si prende la parte migliore, lo scemo) un film più per cineasti che per cinefili. Dopo l'iniziale breve racconto della situazione iraniana contemporanea (in storyboard che non ci sono piaciuti) e l'attentato all'ambasciata, la pellicola prende la piega ironica e mette in scena due mattatori, Alan Arkin (Oscar rubato a Eddie Murphy per Little Miss Sunshine) e John Goodman (quello-di-Pappa E Ciccia-ma-soprattutto-di-The Artist) nel ruolo rispettivamente del produttore e del truccatore, figure che ben conoscono il mondo di Hollywood e ci ridono sopra: battute sulle case di distribuzione, sugli sceneggiatori, sui premi alla carriera, sui fondi, sulla stampa, sugli eventi mondani, sugli attori stessi. Si vede che Affleck conosce bene il suo habitat e ci sguazza; si vede anche che, incredibilmente, riesce a mantenere l'umorismo in un cassetto mezzo chiuso quando è più importante la tensione che ha contraddistinto i due precedenti film da regista. Argo è un capolavoro di suspance, comincia che siamo già buttati nella storia e le due ore volano mentre noi ci agitiamo sulle poltroncine. Quasi perfetto, non riesce a risparmiarsi il risvolto sentimentale per la condizione familiare a cui i dipendenti della C.I.A. sono costretti ma sa bene scherzare anche su quella, distinguendosi dal molto più complicato (e serioso) Syriana a cui sembra strizzare l'occhiolino già da questa locandina - e dal fatto che George Clooney, protagonista di quel film con Matt Damon amicone di Affleck, è produttore di questo.
Prova di avvenuta maturazione accolta benissimo in patria la settimana scorsa sia dal pubblico che dalla critica. Un possibile Miglior Film ai prossimi Oscar

twice born.



Venuto Al Mondo
id., 2012, Italia, 127 minuti
Regia: Sergio Castellitto
Sceneggiatura non originale: Margaret Mazzantini & Sergio Castellitto
Basata sul romanzo Venuto Al Mondo di Margaret Mazzantini (Mondadori)
Cast: Penélope Cruz, Emile Hirsch, Adnan Haskovic,
Pietro Castellitto, Saadet Askoy, Sergio Castellitto
Voto: 7.1/ 10
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«Quando ho finito di scrivere Venuto al mondo [libro; ndr.] avevo le ossa rotte» dice Margaret Mazzantini durante il Festival del Cinema Europeo dove ha accompagnato il marito Sergio a ritirare il Premio alla Carriera con tutta la famiglia; e prosegue: «...questo è stato un anno intenso, due romanzi a breve distanza [Nessuno Si Salva Da Solo, Mondadori e Mare Al Mattino, Einaudi; ndr.], le riprese del nuovo film di Sergio, andavo continuamente sul set, abbiamo fatto davvero un buon lavoro».
Il “buon lavoro” che una scrittrice crede di aver fatto è sempre erroneo: il problema di chi partorisce una storia è che nell'autore la storia è dentro, vive nello stomaco e nella testa, la storia è tutta nota; portarla su carta o sullo schermo vuol dire dare voce a una parte di essa, parte che il pubblico vedrà con gli occhi diversi dall'autore, perché ne capirà di meno.
E così in Venuto Al Mondo [film; ndr.] ci sono interi quarti d'ora (delle due ore abbondanti) incomprensibili per chi non ha la storia dentro, che in questo caso non è solo l'autrice ma anche il lettore del romanzo da cui è tratto. Venuto Al Mondo è un film di cui non si può parlare prescindendo dal libro, come si è potuto fare invece per Io E Te che si basava su sessanta ridicoli fogli e On The Road che si basava su vomiti di episodi beat. Qua si tratta di un romanzone di quasi seicento pagine che può piacere e non piacere ma fagocita un'intensità di rara riproduzione e su questo siamo tutti d'accordo, che ha vinto il Campiello facendo diventare la Mazzantini una delle poche ad avere in casa sia questo riconoscimento che lo Strega, che aveva vinto con Non Ti Muovere, dal quale il marito aveva tratto un altro film con un'altra Penélope Cruz. Squadra vincente non si cambia, la famiglia Castellitto (che fa sempre tutto insieme) si riunisce per tentare l'impossibile e gira un kolossal. Perché Venuto Al Mondo questo vuole essere: un film il meno italiano possibile, e qua c'è la più grande pecca.
Ne esce totalmente sconfitto: il personaggio di Gemma, interpretato dalla Cruz, una delle donne della letteratura italiana contemporanea più profonde e psicologicamente complesse con gonne lunghe e stivali, cinquanta chili sulla pancia e una guerra sulle spalle, che sullo schermo prende le (troppe) forme e le (troppo poche) parole di una Penélope che recita come Almodóvar le ha insegnato - troppo spagnola - diventa frivola, insipida, piatta, stupida, capelli mossi e balletti sensuali in vestito sulle pozzanghere fuori luogo.
Ne esce totalmente vincente: Emile Hirsch, che invece si fotocopia dal romanzo e dipinge un Diego folle, forte, brioso, frizzante, spontaneo, che pareva la scelta meno adatta (non certo meno della Cruz) per il ruolo.
Ne esce sconfitto: lo spettatore, preso in giro dal doppiaggio non necessario. In originale: Hirsch è fotografo americano che parla inglese, Penélope è italiana che parla italiano a Roma e inglese a Sarajevo, Gojko è bosniaco che parla bosniaco quando non ha ospiti con cui tutti parlano inglese. Nel film doppiato: tutti parlano sempre italiano. Ne esce sconfitta Roma, parte essenziale della gestazione nel romanzo, qui vista a malapena.
Ne esce vincente: Sergio Castellitto, che sforna un polpettone internazionale senza capire che se Non Ti Muovere non era poi questa gran cosa, il matto La Bellezza Del Somaro ci era molto più piaciuto di quello che si crede - anche quello scritto dalla Mazzantini e anche quello col figlio Pietro, a cui qua viene dedicata una drammaturgica scena di urla e porte sbattute totalmente gratuita che rovina la sequenza precedente, meravigliosa, giocata su due livelli temporali in una stessa casa di stanze e corridoi.
Insomma: primo terzo tutto sbagliato; secondo terzo molto potente; terzo terzo troppo retorico. Dialoghi surreali. Buon trucco. Musica non sempre azzeccata (del fratello della Cruz, anche co-produttrice). Ennesimo caso in cui «è meglio il libro».

martedì 6 novembre 2012

tu che issi le bandiere.



La Collina Dei Papaveri
Kokuriko-Zaka Kara, 2011, Giappone, 91 minuti
Regia: Goro Miyazaki
Sceneggiatura originale: Hayao Miyazaki & Keiko Niwa
Soggetto: Chizuru Takahashi & Tetsuro Sayama
Voci originali: Masami Nagasawa, Junichi Okada, Yuriko Ishida
Voci italiane: Giulia Tarquini, Lorenzo Deangelis, Laura Romano,
Alessio De Filippis, Aurora Cancian
Voto: 7/ 10
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La nuova storia di terra e di mare della famiglia Miyazaki entra ed esce dalle sale italiane nello stesso giorno, e cioè oggi, 6 novembre, a quasi un anno di distanza dalla distribuzione internazionale. La trovata - forse ben pensata - ha portato i cinema a strabordare già alle tre del pomeriggio, cosa che ha portato la metà degli spettatori a dormire per la seconda metà del film. Il corri-corri a vedere il-nuovo-capolavoro-dello-Studio Ghibli dopo i veri capolavori che hanno segnato la storia del cinema d'animazione La Città Incantata e Il Castello Errante Di Howl, incantevoli tanto nella trama quanto nell'immagine e soprattutto nella poesia, è stato però accolto male, perché Goro Miyazaki, il figlio, continua a non riuscire a toccare i livelli di splendore visionario del padre - che pure stiamo vedendo invecchiare a partire dall'infantile Ponyo Sulla Scogliera. È Hayao, in realtà, a stendere idea e sceneggiatura per questo film d'animazione, ma mettendo da parte magia e fantasia e con troppi collaboratori che riportano la storia ai soliti amori impossibili da Romeo & Giulietta ad Uccelli Di Rovo. Il tema di fondo: l'importanza del passato e la forza con cui si deve lottare alla sua non cancellazione, rappresentata da un edificio, chiamato francesemente Quartier Latin, un villone antico e antiquato in cui nessuno passa la scopa da decenni e gli studenti di una sorta di liceo limitrofo ci tengono le assemblee, le sale per gli incontri dei club, il gabbiotto di Filosofia, il binocolo degli astronomi, e soprattutto la redazione del giornalino scolastico, stampato nostalgicamente a ciclostile manuale e scritto dalle mani abili con bella calligrafia blu ogni sera su carta da lucido.
In questa scuola si reca tutte le mattine la piccola Umi, figlia maggiore di una famiglia disfatta dal tempo e dal caso: il papà è morto in guerra, la mamma è docente universitaria in trasferta in America. Restano lei e sua sorella e sua nonna, che per il periodo di assenza della genitrice hanno affittato le camere in più ad una studentessa di Medicina e ad una pittrice, che colorano un filo (ma leggermente un filo) le mattine della colazione insieme, preparate ogni santo giorno dalla devota Umi che poi annaffia i papaveri, lava e stende i panni, fa la spesa al mercato.
La tradizione scolastica vuole che - ma lo capiremo con difficoltà alla fine della lunghissima scena - un rappresentante del corpo maschile si lanci dal tetto di questo Quartier Latin per tuffarsi nel pozzo coperto del cortile della mensa, e proprio in questa occasione Umi avrà il primo contatto con Shun, aiutandolo ad uscire dall'acqua. Egli, autore e amanuense nel quotidiano studentesco, la accompagnerà in città per le compere e la farà tornare sulla collina a piedi piena d'amore con intorno decisamente pochissimi papaveri.
Le immagini in animazione entrano in netto contrasto con gli sfondi: abbiamo sempre, dietro, dipinti impressionisti luminosissimi, elementari, minuziosi quando serve, dati da macchie e tocchi di pennelli a spatola che rendono bene il paesaggio erboso e naturale del colle sopra il mare. Ragazzini e ragazzine sono, invece, contornati e piattissimi, scolastici nei segni (ma non nel movimento), decisamente poco originali. Dicono cose che non diremmo mai, oggi, né avremmo detto negli anni '50 quando il film è ambientato («auguro a voi un buon giorno»). Dopo averci deluso con l'esordio I Racconti Di Terramare, Miyazaki jr. ci delude anche con questo, ma la colpa non è sua: avevamo aspettative troppo alte dal bellissimo trailer, non ci fanno impazzire le canzoni cinesi cantate in coro acapella e soprattutto eravamo troppo speranzosi dopo questo inizio brioso con note di piano, donne attorno al tavolo, poetici annunci anonimi e bandiere issate al vento.

British Independent Film Awards - nominations.



L'anno scorso aveva trionfato il meraviglioso Tyrannosaur prima che lo premiasse anche l'Orange Academy ai BAFTA, e gli altri quattro candidati insieme a quello erano film di tutto rispetto e di fama internazionale: We Need To Talk About Kevin era passato a Cannes, La Talpa a Venezia con Shame, e l'anno prima Il Discorso Del Re aveva pregustato l'antipasto degli Oscar.
Quest'anno - Marigold Hotel escluso - ci sono film di cui non abbiamo mai sentito parlare dai generi più disparati: l'horror Berberian Sound Studio, la commedia Sightseers, il documentario biografico su Frédéric Bourdin The imposer, e il film che al momento è il più quotato, il drammatico Broken, dell'ex attore di serie B Rufus Norris, con 9 nominations in tutto (film, regia, debutto alla regia, sceneggiatura, attore, due attori non protagonisti, attore emergente, colonna sonora). Ma per l'elenco completo dei candidati, rimando al sito ufficiale.
L'aspetto bizzarro di queste nominations ai 14esimi BIFA o British Independent Film Awards è che, essendo inglesi, considerano “stranieri” anche gli americani, e vediamo nominati: Beasts Of The Southern Wild (recitato in inglese), il documentario Searching For Sugar Man sul musicista Steven Segerman (recitato in inglese), il film dell'anno Amour franco-austriaco (recitato in francese), Ruggine E Ossa grande escluso dagli EFA (recitato in francese) e Il Sospetto, annunciato capolavoro a fine mese nelle nostre sale. Ancora un residuo dell'anno scorso: The Iron Lady, nominato per la tremenda sceneggiatura di Abi Morgan - autrice anche di Shame - e per l'attrice Meryl Streep che con quel ruolo ha ricevuto il terzo Oscar e se la deve vedere con la protagonista di Ginger & Rosa della brava Sally Potter (regista di Lezioni Di Tango).
I candidati sono:

Miglior Film Indipendente
Berberian Sound Studio di Peter Strickland
Broken di Rufus Norris
Sightseers di Ben Wheatley
Marigold Hotel di John Madden
The Imposer di Bart Layton

Miglior Regista
Brt Layton per The Imposer
Ben Wheatley per Sightseers
John Madden per Marigold Hotel
Peter Strickland per Berbian Sound Studio
Rufus Norris per Broken

Miglior Attrice
Alice Lowe in Sightseers
Andrea Risenborough in Shadow Dancer
Elle Fanning in Ginger & Rosa
Judi Dench in Marigold Hotel
Meryl Streep in The Iron Lady

Miglior Attore
Riz Ahmes in Ill Manors
Steve Oram in Sightseers
Terence Stamp in Song For Marion
Tim Roth in Broken
Toby Jones in Berberian Sound Studio

Miglior Attrice Non Protagonista
Alice Englert in Gigner & Rosa
Eileen Davies in Sightseers
Maggie Stmith in Marigold Hotel
Olivia Colman in Hyde Park On Hudson
Vanessa Redgrave in Song For Marion

Miglior Attore Non Protagonista
Billy Connolly in Quartet
Cillian Murphy in Broken
Domhnall Gleeson in Shadow Dancer
Rory Kinnear in Broken
Tom Wilkinson in Marigold Hotel

Miglior Film Straniero Indipendente
Amour di Michael Haneke (Austria/ Francia)
Beasts Of The Southern Wild di Benh Zeitlin (USA)
Un Sapore Di Ruggine E Ossa [De Rouille Et D'os] di Jacques Audiard (Francia)
Searching For Sugar Man di Malik Bendjelloul (Svezia/ UK)
Il Sospetto [Jagten] di Thomas Vinterberg (Danimarca)

lunedì 5 novembre 2012

Oscar 2013 - i film d'animazione.



Scorpacciata Disney quest'anno: la più grande casa di produzione e distribuzione per giovanotti e signorine del globo avanza verso gli Academy Awards 2013 con ben 4 film sulla schiena. Sono stati annunciati infatti i film d'animazione che possono sperare di ricevere la candidatura all'Oscar per il miglior cartone animato nella categoria lungometraggi.
E la Disney potrebbe farcela con tre di questi: il deludente Brave in co-produzione con la Pixar; Frankenweenie, diretto da Tim Burton (altro di cui abbiamo fatto scorpacciata quest'anno) che ritorna ai tempi de La Sposa Cadavere, ma in bianco e nero; Il Segreto Delle Ali, ennesimo film con protagonista Trilly che da noi in Italia uscirà questo novembre al cinema - e dopo un mese appena sarà su Disney Channel; Ralph Spaccatutto, annunciato capolavoro in preparazione da quattro anni che saluta nostalgicamente le vecchie sale giochi dei bar in spiaggia e tutti quei pupazzini con cui le generazioni fino alla mia sono cresciute (uscirà in Italia il 20 dicembre mentre in America ha appena incassato 40 milioni di dollari nel primo weekend, fattore che lo porta automaticamente nella cinquina dei candidati). Ma chi vincerà?
Per la regola della ruota che quest'anno io quell'anno tu, toccherebbe a ParaNorman, piccolo gioiello della Laika, la casa di produzione di Coraline (che si candidò, e non vinse), così curato dal punto di vista scenico che c'è solo da elogiarlo - per quanto la sceneggiatura abbia le sue pecche e sia di certo molto meno spettacolare di altri film presenti in lista. Le case di produzione ci sono tutte: la DreamWorks con Le 5 Leggende (dal 29 novembre in Italia) e Madagascar, la Universal con l'insipido Lorax, la Sony-Columbia con Hotel Transylvania (da giovedì 8), la Blue Sky con L'era Glaciale, la Aardman di Wallace & Gromit già vincitrice per numerosi corti e un lungometraggio, con il bizzarro Pirati!
Fanno da contorno tutta una serie di pellicole sconosciute provenienti soprattutto dall'India e dalla Francia, che l'America finge di aver visto e apprezzato per illudere i poveri cineasti d'oltreoceano - anche se l'anno scorso, senza che nessuno ci credesse, erano finiti in nomination un cartone piccolo piccolo francese e uno spagnolo. Tra questi, solo Le Chat Du Rabbin potrebbe farcela, vista tanta concorrenza, già vincitore del César e candidato all'EFA l'anno scorso. E, magari, La Collina Dei Papaveri che uscirà nei nostri cinema domani, e solo per domani.

Adventures In Zambezia di Wayne Thornley (Sud Africa)
A Liar's Autobiography: The Untrue Story Of Monty Python's Graham Chapman di Bill Jones Jeff Simpson e Ben Timlett (UK)
Ribelle [The Brave] di Mark Andrews, Brenda Chapman e Steve Purcell (USA)
Delhi Safari di Nikhil Advani (India)
Lorax [Dr. Seuss' The Lorax] di Chris Renaud & Kyle Balda (USA)
Frankenweenie di Tim Burton (USA)
Hotel Transylvania di Genndy Tartakovsky (USA)
L'era Glaciale 4 - Continenti Alla Deriva di Steve Martino & Mike Thurmeier (USA)
La Collina Dei Papaveri di Goro Miyazaki (Giappone)
Hey Krishna di Vikram Veturi (India)
Le Chat Du Rabbin di Antoine Delesvaux & Joann Sfar (Francia/ Austria)
Le Noël De Walter Et Tandoori di Sylvain Viau (Canada)
Le Tableau [The Painting] di Jean-François Laguionie (Francia/ Belgio)
Madagascar 3 - Ricercati In Europa di Eric Darnell, Tom McGrath e Conrad Vernon (USA)
ParaNorman di Chris Butler & Sam Fell (USA)
Le 5 Leggende [Rise Of The Guardians] di Peter Ramsey (USA)
Trilly E Il Segreto Delle Ali di Roberts Gannaway & Peggy Holmes (USA)
The Mystical Laws di Isamu Imakake (Giappone)
Pirati! Briganti Da Strapazzo [The Pirates! In An Adventure With Scientists!] di Peter Lord (UK/ USA)
Ralph Spaccatutto [Wreck-It Ralph] di Rich Moore (USA)
Zarafa di Rémi Bezançon e Jean-Christophe Lie (Francia/ Belgio)

European Film Awards - nominations.



La trovata bizzarra degli EFA, gli European Film Awards assegnati ogni anno il primo sabato di dicembre dalla European Film Academy, è che organizzano una cerimonia girovaga, che ogni anno dispari torna a Berlino, sede della giuria, e ogni anno pari tocca un'altra capitale. Quest'anno, ché il 12 è pari, è la volta di Malta, e i premi saranno consegnati il prossimo 1 dicembre - mentre le nominations sono state annunciate dal Festival del Cinema Europeo di Siviglia due giorni fa.
Ai candidati ufficiali, ora, si sono aggiunti i titoli che potranno essere premiati dal pubblico (novità del 2006 che si basa quasi esclusivamente sugli incassi), dove vediamo segregati il povero John Madden, Phyllida Lloid, Lasse Hallstrom, tutti (ex) grandi nomi, insieme ai residui dell'anno scorso The Artist e In Darkness (nomination all'Oscar per il miglior film straniero, Polonia) e il futuro vincitore - di questa categoria e questa soltanto, spero: Quasi Amici.
Un sacco di residuati anche nelle categorie più grasse: Shame, buona prova di regia per uno Steve McQueen che era stato più bravo in Hunger (ma da noi in Italia i film sono usciti al contrario); La Talpa di Alfredson che era passato a Venezia l'anno scorso e ai successivi BAFTA e Oscar; C'era Una Volta In Anatolia, miglior regia allo scorso Cannes; Carnage, che riconferma l'amore per questi giurati per Polanski (vinse il Miglior Film con L'uomo Nell'ombra che abbiamo visto in dieci) e per Kate Winslet, unica nominata di un cast meraviglioso; il Faust tanto osannato al Lido 2011 e poi presto dimenticato.
Ma la notizia più importante è che: siamo nella cinquina dei migliori film! Cesare Deve Morire dei maestri Paolo & Vittorio Taviani prosegue la sua corsa verso gli Academy e ci porta nelle categorie più importanti (non succedeva dal 2008, quando eravamo candidati al miglior film sia con Il Divo che con Gomorra, e con quest'ultimo vincemmo) (precedentemente, era il 2001 con La Stanza Del Figlio) e cioè quella del film, la regia, il montaggio e il premio del pubblico. Certo, in tutte queste categorie (e in altre tre) c'è il capolavoro dell'anno, Amour, che ha tutto il diritto di vincere tutto - vuoi vedere che un altro film francese gli toglie il premio all'attore?
Altra pellicola pluri-nominata è Il Sospetto che si appresta a uscire nelle nostre sale, regia di Thomas Vinterberg (quello-di-Festen) che ha ottenuto il premio al miglior attore a Cannes e ha buone speranze di rifarcela; mentre un film a sorpresa non pluri-nominato è Oltre Le Colline: dopo la vittoria con 4 Mesi, Mungiu si deve accontentare della candidatura alla sceneggiatura, e a nemmeno quella per le attrici. Manca anche Sister della Meier e a sorpresa c'è Paradise: Love di Seidl con la sua incredibile (e coraggiosa) protagonista Margarethe Tiesel.
C'è ancora un altro italiano, anche se il candidato è francese: le musiche del multi-etnico Io Sono Li (titolo inglese splendido: Shun Li And The Poet). E due altre proposte straniere per i prossimi Oscar: A Royal Affair di Nikolaj Arcel e il piccolo Kauwboy di Boudewijn Koole che abbiamo da poco recensito.

Miglior Film
Amour di Michael Haneke (Austria/ Francia/ Germania)
Barbara di Christian Petzold (Germania)
Cesare Deve Morire di Paolo & Vittorio Taviani (Italia)
Quasi Amici [Intouchables] di Olivier Nakache & Eric Toledano (Francia)
Il Sospetto [Jagten] di Thomas Vinterberg (Danimarca)
Shame di Steve McQueen (UK)

Miglior Regista
Nuri Bilge Ceylan per C'era Una Volta In Anatolia
Michael Haneke per Amour
Steve McQueen per Shame
Paolo & Vittorio Taviani per Cesare Deve Morire
Thomas Vinterberg per Il Sospetto [Jagten]

Miglior Attrice
Emile Dequenne in A Perdre La Raison
Nina Hoss in Barbara
Emmanuelle Riva in Amour
Margarethe Tiesel in Paradise: Love
Kate Winslet in Carnage

Miglior Attore
François Cluzet & Omar Sy in Quasi Amici [Intouchables]
Michael Fassbender in Shame
Mads Mikkelsen in Il Sospetto [Jagten]
Gary Oldman in La Talpa [Tinker Tailor Soldier Spy]
Jean-Louis Trintignant in Amour

Migliore Sceneggiatore
Michael Haneke per Amour
Tobias Lindholm & Thomas Vinterberg per Il Sospetto [Jagten]
Cristian Mungiu per Oltre Le Colline
Olivier Nakache & Eric Toledano per Quasi Amici [Intouchable]
Roman Polanski & Yasmina Reza per Carnage

Miglior Direttore Della Fotografia
Sean Bobbitt per Shame
Bruno Delbonnel per Faust
Darius Khondji per Amour
Gokhan Tiryaki per C'era Una Volta In Anatolia
Hoyte van Hoytema per La Talpa [Tinker Taylor Soldier Spy]

Miglior Montatore
Janus Billeskov Jansen & Anne Osterud per Il Sospetto [Jagten]
Roberto Perpignani per Cesare Deve Morire
Joe Walker per Shame

Miglior Scenografia
Maria Djurkovic per La Talpa [Tinker Tailor Soldier Spy]
Niel Sejer per A Royal Affaire
Elena Zhukova per Faust

Miglior Compositore
Cyrille Aufort & Gabriel Yared per A Royal Affaire
François Couturier per Io Sono Li
George Fenton per The Angels' Share
Alberto Iglesias per La Talpa [Tinker Taylor Soldier Spy]

People's Choice Award per il Miglior Film
The Artist di Michel Hazanavicius
Barbara di Cristian Petzold
Marigold Hotel di John Madden
Cesare Deve Morire di Paolo & Vittorio Taviani
Come As You Are [Hasta La Vista] di Geoffrey Enthoven
Headhunters di Morten Tyldum
In Darkness di Agnieszka Holland
The Iron Lady di Phyllida Lloid
Il Pescatore Di Sogni di Lasse Hallstrom
Shame di Steve McQueen
La Talpa [Tinker Tailor Soldier Spy] di Thomas Alfredson
Quasi Amici [Intouchables] di Olivier Nakache & Eric Toledano

sabato 3 novembre 2012

buon compleanno Monica Vitti.



L'anno scorso il Festival di Roma la celebrava con una mostra fotografica e una minuscola retrospettiva in occasione dell'ottantesimo compleanno, Vanity Fair la metteva in copertina e chiedeva agli amici più cari di parlarne, Sky Cinema Classics mandava in onda le vecchie glorie con Alberto Sordi; quest'anno che sono ottantuno non la celebra nessuno e noi, che la amiamo più di quanto la nazione ami Sophia Loren o l'omonima Bellucci (o Anna Magnani, Bellissima, perdonate la citazione, a suo modo) la vogliamo ricordare ugualmente, perché ogni anno merita di essere celebrato se a compierlo è Monica Vitti, artista, attrice che si è dovuta ritirare dalle scene con dignità quando ancora la malattia le permetteva di averne, di rinchiudersi in casa e mai più uscirne accanto al compagno e marito Roberto Russo, ex fotografo e regista (ha esordito dirigendo lei in Flirt), sposato nello scalpore dei sedici anni che li dividevano, nel 2000, e che ha dimostrato e dimostra tutt'ora devozione e rispetto per la sua piccola famiglia.
Scoperta da Michelangelo Antonioni che le fece doppiare Dorian Gray ne Il Grido, e poi sbattuta sulle Eolie a cercare la Anna dispersa de L'avventura, col conseguente fiasco e successo al Festival di Cannes 1961, Monica è stata attrice brillante tanto nel dramma quanto nella commedia, sapendo tenere testa ai grandi mattatori italiani, da Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman ad Alberto Sordi e Ugo Tognazzi. E nonostante abbia dato ne La Notte, ne L'eclisse e nel Deserto Rosso (la trilogia dell'incomunicabilità nata dal sodalizio artistico e sentimentale col regista ferrarese) le sue migliori interpretazioni tragiche, noi ce la ricordiamo ridendo, con un film che l'ha portata in America (La Ragazza Con La Pistola, candidato all'Oscar come Miglior Film Straniero 1969) per la prima serata e un album di episodi tragicomici (Noi Donne Siamo Fatte Così, scritto, tra gli altri, da Furio Scarpelli, Ettore Scola e Dino Risi) in cui è protagonista incontrastata, per la seconda.
Buon compleanno, Monica.
Cliccando sui titoli dei film verrete rimandati allo streaming di YouTube.

La Ragazza Con La Pistola
di Mario Monicelli (1968)
con Monica Vitti, Carlo Giuffrè, Stanley Baker

Noi Donne Siamo Fatte Così
di Dino Risi (1971)
con Monica Vitti

Louis-Delluc - candidati.



Il premio cinematografico più prestigioso di Francia (più addirittura dei César) si chiama Prix Louis Delluc (in onore del cineasta capostipite dell'arte francese) e sarà consegnato il prossimo 14 dicembre a Parigi. A scegliere il miglior film del Paese, una giuria presieduta da Gilles Jacob.
L'anno scorso è stato premiato il bel Miracolo A Le Havre del folle Aki Kaurismäki che poi non ottenne neanche la nomination all'Oscar e, per l'opera prima, l'anonimo Donoma. Quest'anno questa seconda categoria non c'è. E tra gli otto film candidati per la prima, ovviamente non compare Quasi Amici (che tanto si mormora arriverà ai più grossi premi americani).
Compaiono, invece, film usciti da tutti i festival. Innanzitutto, l'Amour di Haneke che odora di vittoria, insieme a Un Sapore Di Ruggine E Ossa e il visionario Holy Motors (che esce la prossima settimana negli USA e da noi probabilmente mai dato il visionario plot) che gli facevano compagnia a Cannes; i veneziani Après Mai (titolo internazionale poco azzeccato Something In The Air) e La Désintégration (il cui regista ha esordito, guarda un po', con un film che si chiamava L'amour); il berlinese Gli Addii Alla Regina già uscito in terra americana e ancora non previsto da noi, che racconta l'ennesima storia di Maria Antonietta (interpretata da Diane Kruger);  38 Témoins (letteralmente: “38 Testimoni”; titolo inglese: One Night) che ha aperto il Festival di Rotterdam.
Belvaux e la Lvovsky hanno già vinto questo premio, nel 2003, insieme parimerito, lei con Les Sentiments e lui con la trilogia Un Couple Épatant / Cavale / Après La Vie. Carax invece ha ottenuto il riconoscimento nel 1986 con Rosso Sangue (Mauvais Sang). Audiard, più recentemente, con l'osannato Il Profeta (2009). Per Haneke, che quasi mai gira film interamente in francese (lo scorso era tedesco e il precedente americano), sarebbe la prima volta.
Rimando alle recensioni, ove i titoli sono in blu, per scoprire chi ha la vittoria in pugno. Ricapitolando, i candidati al 59° Prix Louis Delluc sono:

38 Témoins di Lucas Belvaux
Amour di Michael Haneke
Après Mai di Olivier Assayas
Camille Redouble (Camille Rewinds) di Noémie Lvovsky
Un Sapore Di Ruggine E Ossa (De Rouille Et D'os) di Jacques Audiard
Holy Motors di Leo Carax
La Désintégration di Philippe Faucon
Les Adieux À La Reine di (Farewell, My Queen) di Benoît Jacquot