sabato 26 gennaio 2013

per Dio, per la nazione.



Zero Dark Thirty
id., 2012, USA, 157 minuti
Regia: Kathryn Bigelow
Sceneggiatura originale: Mark Boal
Cast: Jessica Chastain, Joel Edgerton, Chris Pratt, Jason Clarke,
Kyle Chandler, Jeremy Strong, James Gandolfini
Voto: 9.2/ 10
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Candidato a 5 Premi Oscar:
film, sceneggiatura originale, attrice,
montaggio, montaggio sonoro
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Il film, ci viene detto all'inizio, è una ricostruzione più o meno fedele basata «su testimonianze» reali. Prima polemica: certi membri dell'Intelligence americana hanno rivelato un po' troppo allo sceneggiatore Boal che ha ricostruito troppo fedelmente la vicenda (che però – attenzione! – è sceneggiatura originale). Con più di cinque ore di girato, i montatori Goldenberg & Tichenor (il primo montatore anche di Argo) hanno sforbiciato la pellicola quasi documentaristica sotto il comando della tanto elogiata Bigelow che ha reso quindi il prodotto più cinematografico possibile, addirittura troppo: perché questo continuo parlare di Storia, di docu-fiction, di trasposizione del reale, distoglie il pubblico da ciò che sta in realtà guardando: un film. Il solito film americano con la C.I.A., con una protagonista determinata contro cui tutti alzano le sopracciglia, che ostinatamente sottolinea la sua ragione e, ovviamente, poi l'ha vinta. Per cui, per questa carica di realismo (non realtà) l'uscita del film è stata posticipata fino a dopo l'elezione alla Casa Bianca – perché nella pellicola c'è un piccolo Obama che parla in televisione, e la scelta di ciò che dice ha suscitato altre polemiche. Con le nominations ai Golden Globe e il riscatto della regista che per The Hurt Locker non aveva ricevuto nessuna candidatura (e poi 6 Oscar) le prime recensioni sono fioccate (contemporanee al buonista Lincoln) ed ecco i paragoni: quello è il solito film di Spielberg tutto merletti e questo è un film-non film che parla di una cosa troppo recente. La cosa, recente, dovrebbe rendere orgogliosi gli americani, che tanto ci hanno (giustamente, per carità) fracassato le palle con l'11 settembre: quell'episodio li vedeva sconfitti e questo li vede vincitori. Ma no: certa stampa inglese di sinistra l'ha decretato «ai limiti del fascismo»; la C.I.A. è intervenuta (personalmente?) per evidenziare come la scena d'apertura, la tortura su un prigioniero pakistano, sia troppo esagerata o esageratamente dura, che certe pratiche torturatorie non vengono mica usate più.
Bene, in tutto questo, allo spettatore medio, allo spettatore italiano che non ha capito niente di Syriana, che non sta ad ascoltare cosa dice Obama che passa in TV quattro secondi in una scena, che non ha idea di come funzioni la C.I.A., che differenza ci sia con l'Intelligence e quanto sia alto il patriottismo americano, il film sembrerà un film normale, e non una docu-story, un film di spionaggio «meno bello di Argo» (con cui condivide anche il compositore che pare riciclare gli spartiti de L'uomo Nell'ombra) perché meno popolano, meno popolare, fatto non per il pubblico ma per il cinema, il cinema quello vero che, guarda un po', Kathryn Bigelow ha scoperto (e noi abbiamo scoperto lei) quando ha lasciato la fede nuziale e l'aiuto di James Cameron e ha raccolto dalla strada uno sconosciuto Mark Boal che tutto ciò che aveva fatto nella vita era stato scrivere il soggetto di Nella Valle Di Elah. Insieme, hanno raccolto tutto questo «materiale» di cui sopra che ha permesso di ricostruire questa (dolorosa) (ambigua) (accusata) storia che ha coperto dieci anni di operazioni americane durante le quali basi segrete e rifugi nel deserto del Medio Oriente non sono bastati ad avere informazioni su attentati andati a buon fine (e c'è l'errore del numero d'autobus inglese) e mandanti di quegli attacchi. Viene quindi mandata là la giovanissima Maya, una Jessica Chastain (attrice dell'anno scorso e, a vederla nel primo e secondo film in classifica, anche di questo) di cui non sappiamo niente, se non che è stata chiamata «per un motivo che non è permesso rivelare» nell'organo segreto nazionale quando ancora era al liceo, ma in fondo questa è la sua prima vera operazione. Convinta di aver capito dove si nasconda Osama Bin Laden, cerca di convincere chi la circonda, senza molti successi. E il femminismo delle inquadrature si contrappone alla carica virile del film precedente, mostrandoci però che la Bigelow è tanto abile a gestire una solitudine femminina quanto a scavare nell'animo patrizio con la magistrale, sopraffina, impeccabile scena finale della missione, in cui i militari si guardano a vicenda elencando la gente che hanno dovuto ammazzare, cercando di convincere più loro stessi che gli altri. Ne segue un giusto finale, che dopo un film a tratti “facile” e quasi “usuale” nelle immagini (la Chastain non ha poi un così grandioso personaggio) resta sempre alto a livello di tensione (ricordo: racconta di dieci anni) e lascia poi un vuoto tra il petto e la gola perché non c'è spazio a nessuna celebrazione, nessuna gloria. Ciò che si doveva fare è stato fatto.

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