giovedì 31 gennaio 2013

un rumore innaturale.



Lincoln
id., 2012, USA, 150 minuti
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura non originale: Tony Kushner
Basata sul romanzo Team Of Rivals di Doris Kearns Goodwin
Cast: Daniel Day-Lewis, Sally Field, Tommy Lee Jones,
David Strathairn, Joseph Gordon-Levitt, Hal Holbrook,
John Hawkes, Jakie Earle Haily
Voto: 7.9/ 10
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Candidato a 12 Premi Oscar:
film, regia, sceneggiatura non originale, attore, attrice non protagonista,
attore non protagonista, montaggio, fotografia, costumi, scenografia,
colonna sonora originale, mixaggio sonoro
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Anche quest'anno Steven Spielberg non riesce ad essere assente agli Oscar. Dopo le cilecche di tutte le cerimonie precedenti (l'anno scorso War Horse su 6 nominations non ha vinto niente; stesso anno Tintin una nomination e niente; nel 2005 Munich 5 nominations e niente; prima ancora La Guerra Dei Mondi 3 nominations e niente; Prova A Prendermi 2 nominations e niente; Minority Report una nomination e niente; A.I. 2 nominations e niente) (e bisogna andare indietro al 1998 per contare i 5 Oscar vinti da Salvate Il Soldato Ryan tra cui quello personale alla regia) e proprio per le suddette cilecche è stato infilato in una categoria, quella della Miglior Regia, completamente potata dei possibili vincitori per cui se la gode contro un austriaco e uno appena trentenne. Perché questo Lincoln è stato elogiato già dalla sua prima proiezione in patria proprio per il suo essere uscito contemporaneamente a Zero Dark Thirty che ha scatenato le bufere, e ha rappresentato, ecco, ciò che l'America vuole vedere: un film ai limiti del documentario, e non ai limiti del fascismo. Infatti, dopo aver plagiato le menti dei bambini con l'epopea gerrigliera di War Horse raccontando l'amicizia tra un soldato e il suo cavallo che passa dalle truppe americane a quelle tedesche con qualche morto e senza nessuno stupro, Spielberg annulla se stesso e ciò che ha sempre fatto nella vita, e cioè del cinema, il cinema vero, quello dove la camera da presa rende lo spettacolo in sala, quello con le panoramiche di mondi inesplorati e creature che non esistono e musiche storiche e picchi emotivi e si cela dietro una sceneggiatura ai limiti dello storicismo (di colui che scrisse Angels In America in tutte le sue declinazioni, Tony Kushner, super-favorito nella categoria agli Oscar) di cui è molto difficile cogliere ogni dettaglio e ogni battuta e ogni riferimento politico se non si conosce, ancora una volta, l'America e il suo passato, e si cela soprattutto dietro la schiera di attori, nomi immensi del cinema dei decenni scorsi e probabilmente di quelli che verranno, e fa in modo che Daniel Day-Lewis («il più bravo di tutti» riporta Vanity Fair) si doni a noi in tutto il suo splendore e in tutta la sua esagerata altezza, con una voce italiana (di Pierfrancesco Favino) ai limiti del macchiettistico, fa in modo che Sally Field (la Norma Rae che Anne Hathaway ha ricordato sul palco dei Golden Globes) prenda anima e corpo di una moglie che «passerà alla storia come una donna pazza», che Tommy Lee Jones renda ironiche le scene più politicamente profonde e ci porti verso un finale che forse non ci aspettavamo, e recupera dal quasi-dimenticatoio gli ex candidati Jakie Earle Haily (per un film bellissimo che si chiama Little Children che non arrivò mai in Italia) e John Hawke (per Un Gelido Inverno) e Hal Holbrook (per Into The Wild) dimostrando che almeno in questo, nella capacità di saper gestire gli attori, di sceglierli al meglio, in questo è ancora capace (ricordiamo che per War Horse prese Jeremy Irvine che per carità, un musetto tanto caruccio ma abbiamo avuto la conferma delle sue doti in Grandi Speranze). E così, di fianco al regista che non si vede, che si concede anche l'attore del momento, il Joseph Gordon-Levitt in sala anche con l'altro film dell'anno, Looper, a nascondersi per bene è pure il suo storico compositore, John Williams, che con altre due candidature toccherà la soglia delle 50 (cinquanta!) nominations e tutti gli rideremo dietro perché ne ha vinti solo cinque.
C'è bisogno di raccontare la trama? Siamo alla fine della guerra che ha scorticato l'America dal di dentro e siamo anche alla fine della presidenza di Abramo Lincoln, al suo secondo e ultimo mandato. Il presidente tanto amato dal popolo di cui Spielberg sottolinea l'amore per gli aneddoti anche immotivati, il presidente che mise mano al tredicesimo emendamento, rendendo così questo film degno successore di Django perché dove quello parlava cruentemente di ciò che la schiavitù fa, questo parla di ciò che non dovrebbe fare, e ce lo racconta tra le aule di tribunale e gli uffici di delegati, sempre tra completi impeccabili e pizzi addosso alle signore. È ancora il cinema da-nominations-agli-Oscar di Spielberg ed è ancora un auto-elogio dell'America. Ma a differenza di tutti i precedenti, questo non pare neanche un film. A tenerci tesi, in sala, c'è solo una scena, ben costruita, solo una piccola parte, quella del voto; tutto il resto, è puro materiale per gli amanti della battuta fine e delle cronache estere.

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