lunedì 25 febbraio 2013

Oscar 2013 - vincitori.


some guild awards.



Elenco dei candidati e dei vincitori:

Scripter Award

 Argo 
Joshua Bearman autore dell'articolo The Great Escape;
Antonio J. Mendez autore di The Master Of Disguise;
Chris Terrio sceneggiatore di Argo


American Society Of Cinematographers Award

Danny Cohen per Les Misérables
Roger Deakings per  Skyfall 
Janusz Kamiski per Lincoln
Seamus McGarvey per Anna Karenina
Claudio Miranda per Vita Di Pi

domenica 24 febbraio 2013

Oscar 2013 - predictions.


Costume Design Guild Awards - vincitori.



Anna Karenina continua la sua corsa verso gli Oscar guadagnandosi anche il premio del sindacato dei costumisti americani, il 15esimo Costume Designers Guild Award per i costumi di un film storico. Insieme a Jaqueline Durran, è salita sul palco la Jani Termine autrice dei completi dell'ultimo James Bond; ed è mancata Eiko Ishioka, deceduta poco prima che Biancaneve uscisse nelle sale americane e candidata postuma anche ai prossimi Academy Awards, di cui ha la statuetta per il Dracula Di Bram Stoker di Francis Ford Coppola. Gareggiava contro di lei la pluri-vincitrice Colleen Atwood per Biancaneve E Il Cacciatore, giunta quest'anno alla decima nomination all'Oscar (mentre ha casa ne ha tre) e i costumisti di Hunger Games e Lo Hobbit, snobbati da qualsiasi altra cerimonia di premiazione, insieme a quelli di Cloud Atlas, snobbati insieme al film. Il Lacoste Spotlight Award è andato ad Anne Hathaway (nella foto insieme al manifesto della cerimonia) pronta a fare il nuovo piantino ringraziando per l'Oscar come non protagonista, mentre il premio alla Carriera a Judianna Makovsky. Il premio per essersi contraddistinto nel mestiere è stato dato a David Le Vey.
Di seguito tutti i candidati e i vincitori.

Contemporary Film
Stephani Lewis per Beasts Of The Southern Wild
Louise Stjernsward per Marigold Hotel
Mark Bridges per Il Lato Positivo
Jani Termine per  Skyfall 
George L. Little per Zero Dark Thirty

Period Film
Jaqueline Durran per  Anna Karenina 
Jaqueline West per Argo
Paco Delgato per Les Misérables
Johanna Jonson per Lincoln
Kasia Walicka-Maimone per Moonrise Kingdom

Fantasy Film
Kym Barrett & Pierre-Yves Gayraud per Cloud Atlas
Ann Makrey, Richard Taylor e Bob Buck per Lo Hobbit
Judianna Makovski per Hunger Games
Eiko Ishioka per  Biancaneve 
Colleen Atwood per Biancaneve E Il Cacciatore

venerdì 22 febbraio 2013

la sopravvalutata penetrazione.



The Sessions - Gli Incontri
The Sessions, 2012, USA, 95 minuti
Regia: Ben Lewin
Sceneggiatura non originale: Ben Lewin
Basata sull'articolo On Seeing A Sex Surrogate di Mark O'Brien
Cast: John Hawkes, Helen Hunt, William H. Macy,
Moon Bloodgood, Annika Marks, Adam Arkin, Rhea Perlman
Voto: 7/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
attrice non protagonista
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«Aveva un uccello così grosso che credevo non entrasse».
«Perché lo chiami uccello e non pene?».
«Perché pene sembra il nome di un vegetale che ti fa schifo mangiare».
Un dialogo come questo, nonostante viviamo nella società in cui viviamo, fa ancora roteare gli occhi delle dame composte e saltare l'ormone dei fanciulli in fiore (e drizzare la dote di certi vecchini che al cinema alle tre vanno non per il film). Però un dialogo come questo, insieme ai nudi integrali di Helen Hunt che arriva agli Oscar per la seconda volta dopo aver vinto quello del 1998 di Qualcosa È Cambiato, in questo film fatto di scene tristi e poesie d'amore, c'è, e non per poco. Ed è il merito della pellicola: mantenere un decoro senza scadere mai né nella volgarità né nel grottesco dato il tema base, e quello di contorno: storia vera del poeta e giornalista Mark O'Brien, quasi-del-tutto paralizzato dal collo in giù per colpa di una poliomelite maturata dall'età di 7 anni – dopo una badante un pelo violenta e molto scontrosa decide di pubblicare l'annuncio per una giovanotta che sia anche interessata alla scrittura, e di questa prima fanciulla il buon Mark, in grado di muovere solo la testa sulla sua lettiga e confinato per i due terzi del giorno in una gabbia di ferro che lo fa respirare, si innamora perdutamente. Lei, turbata, come tutte le donne turbate in amore (...), scapperà. Le succederà la cino-americana Vera, autrice della frase di cui sopra, interpretata dalla Moon Bloodgood di Terminator, con la quale Mark deciderà di avviare una terapia sessuale mediata da un'esperta del campo (Helen Hunt), che di mestiere fa questo: iniziare (o far continuare) i disabili al sesso, in massimo sei sedute distribuite per tappe, molto diversamente da quanto farebbe una prostituta, che «è interessata a rendere il cliente fisso». Si inserisce nella vicenda anche il prete della parrocchia di quartiere, un poco credibile William H. Macy dai lunghi capelli e dalla birra in mano (e sigaretta in bocca), che porta lo humor del film che quindi tocca tutti i temi più scomodi del mondo: il sesso, la disabilità, la religione, la morte. Ma nessuna polemica: perché dietro la macchina da presa c'è il melenso e televisivo Ben Lewin, australiano, disabile ma solo da stampelle, regista di episodi da Il Tocco Di Un Angelo e Ally McBeal e, per il cinema, Un Pesce Color Rosa e La Misteriosa Morte Di Georgia White (mai sentiti?, neanche io). Lewin parte malissimo: immagini di repertorio del “vero” O'Brien in lettiga che si avvia per l'università mentre un cronista racconta dell'ultima poesia pubblicata e mentre i titoli di testa vanno; poi: voce fuori campo, interno sera con gatto e starnuto trattenuto, dialoghetti alla Dawson's Creek con salti temporali eccessivi. Ma poi s'aggiusta, e le confessioni in chiesa che si mischiano all'episodio narrato (cronologicamente indietro) sono un buon espediente per tenere la suspance. Peccato per il cerchio non chiuso – del receptionist con Vera, sottolineatura delle minoranze etniche che tendono a copulare con individui della propria specie – e per il finale da filmetto TV desideroso di far piangere la casalinga di turno. Ma, nel complesso, un film che batte di gran lunga il molto più composto e pudico Hope Springs e che regala due performance (quelle della Hunt e di Hawkes, che è comparso dal nulla con Un Gelido Inverno e adesso non ce lo perdiamo più) che valgono ogni scena – ma non in italiano.

BAFTA 2013 - vincitori.



I British Academy Film And Television Awards che si distinguono ogni anno – giustamente – per la tendenza a premiare anche il cinema inglese e non solo quello americano, si allineano a tutto ciò che è stato finora e regalano a Ben Affleck la statuetta per la Migliore Regia e per il Miglior Film (come produttore; foto) per Argo. Lo candidano anche – ingiustamente – alla performance da protagonista ma né lui né l'invisibile Alan Arkin grazie a Dio riescono a farcela; il primo perché battuto dal palese Daniel Day-Lewis (quarto BAFTA da attore protagonista così commentato) e il secondo perché battuto da Christoph Waltz, uno dei tre migliori attori non protagonisti di quest'anno che non si sa più ormai chi si contende l'Oscar (Waltz ha vinto anche il Golden Globe, Tommy Lee Jones il SAG, Philip Seymour Hoffman tutti gli altri premi). La sorpresa delle sorprese è il tocco di classe: Emmanuelle Riva batte la più probabile Jennifer Lawrence visibilmente delusa e vince un premio che non ritira perché non c'è per la performance in Amour che – giustamente – è il Miglior Film Straniero (e qui si tremava: l'anno scorso, contro Una Separazione, i BAFTA fecero vincere Almodóvar). Argo vince anche il Montaggio mentre i premi artistico-tecnici se li spartiscono Les Misérables e Vita Di Pi – il primo, inglesissimo, mette i piedi in testa al più originale Anna Karenina che s'accontenta dei costumi – e su tutti trionfa Skyfall, Miglior Film Inglese e Miglior Musica. Il film di David O. Russell, quindi rimasto a bocca asciutta nell'unica categoria in cui aveva speranze, si becca la Sceneggiatura Non Originale mentre quella Originale va a Quentin Tarantino, e qua proprio non si possono fare pronostici per gli Oscar di domenica. Senza niente in mano se ne vanno solo Zero Dark Thirty, e – candidato in molte meno categorie – anche Lo Hobbit.
Tutti i candidati e i vincitori, di seguito e dopo l'interruzione.

Miglior Film
 Argo 
Les Misérables
Vita Di Pi
Lincoln
Zero Dark Thirty

Miglior Film Britannico
Anna Karenina
Marigold Hotel
Les Misérables
Sette Psicopatici
Skyfall

martedì 19 febbraio 2013

il plebiscito.



No
id., 2012, Cile, 118 minuti
Regia: Pablo Larráin
Sceneggiatura non originale: Pedro Peirano
Basata sullo spettacolo teatrale El Plebiscido di Antonio Skármeta
Cast: Gael García Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegers,
Luis Gnecco, Néstor Cantillana, Jaime Vadel
Voto: 7.9/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
film straniero
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Il buon Gael García Bernal che tanto ha sofferto a interpretare il miglior ruolo della sua carriera dal quale non ce lo stacchiamo più (i miglior ruoli: Ángel, Juan e Zahara de La Mala Educación) e che è poi passato per dei mostri sacri del cinema quali Iñárritu e Gondry e qualche scemenzuola per pagarsi le bollette (Letters To Juliet, Il Mio Angolo Di Paradiso), è da un po' che concede la fama del suo nome a piccoli film (a volte microscopici) tipo l'americano The Loneliest Planet di Julia Loktev della scorsa stagione e questo cileno No di Pablo Larraín – che se ci sforziamo ci ricordiamo di aver già visto al Festival di Torino del 2008 dove presentava il suo precedente Tony Manero con sempre Alfredo Castro nel cast.
E per calarsi nel clima degli anni '80 il buon Gael si fa crescere i capelli di dietro e impara quattro termini tecnici dei pubblicitari, non quelli alla Mad Men in completo e whisky ma quelli ex hippy che montano giovinette in tuta che ballano sui ponti insieme a famiglie sorridenti davanti al microonde e vogliono portare l'allegria al Cile, schiacciato da una dittatura che al primo sguardo sembra utile ai più ma nasconde anni di torture e di censure e di ricchezze sporche. Il popolo è quindi invitato a presentarsi alle urne per rispondere “sì” o “no” alla domanda: vuoi che Augusto Pinochet continui a guidare il Paese? E il buon Gael è clandestinamente chiamato a lavorare alla campagna che spinge al “no”. Quindici minuti televisivi da riempire ogni giorno, manifesti, loghi, spot, slogan, jingle. Insomma tutto ciò che stiamo vivendo con l'attuale campagna, con la differenza che quella si basa su valori veri, su messaggi significativi, non sulle facce dei candidati e il bollino del partito; e con la somiglianza dell'opposizione, sempre pronta a rispondere all'avversario ricalcando la pubblicità, trovandone i difetti, cambiandola di significato. Siamo ne Le Idi Di Marzo latino-americane dove il gruppo con meno denaro e meno amici ai piani alti si vede lanciare i sassi contro le finestre, il telefono squillare nella notte, le minacce fioccare. Siamo in una sceneggiatura molto ben gestita che procede in climax verso il plebiscito finale, verso dei dati sempre cangianti, mentre queste formichine si vedono inghiottire da un meccanismo decisamente più grande di loro ma che a noi spettatori non sembra: perché il film è girato con una specie di telecamerina da supermercato i cui colori non si sovrappongono come dovrebbero perciò pare di essere davvero davanti a qualcosa che negli anni '80 fu fatto (precisamente, è l'88), e oltre alla fotografia e alla grana della pellicola ci sono un buon uso degli esterni e le scene, i costumi, gli arredi. Completamente calati nell'epoca della coda di cavallo sciolta, vediamo sforzi e gioie della minoranza che si affida a canzoncine tremende («Cile, l'allegria sta arrivando!») per cui siamo logicamente portati a parteggiare per loro (e non per l'oro) puntando il dito contro un dittatore che promette lavoro ai poveri e sicurezze agli ammalati in cui logicamente non crediamo. Il lieto fine è dietro l'angolo e la felicità e contentezza in cui tutti vissero pure, cose scontate già da metà; ma c'è un finale a sorpresa lo stesso, che non aggiunge niente a noi spettatori che guardiamo ma ci fa capire come in realtà non sia tutto rose e fiori per il buono e bravo e geniale Gael, che ha passato una vita a pensare ai modi in cui le aziende possano trarre benefici televisivi e che dopo essersi concesso alla vita, al popolo, alla Democrazia, non riesce più a non guardare indietro.

lunedì 11 febbraio 2013

Grammy 2013 - visual media vincitori.



Come sempre i Grammys – le cui nominations vengono date a dicembre e quindi con un mese di taglio rispetto alle altre premiazioni – si differenziano dal resto e non, ahimè, per qualità: l'anno prossimo troveremo candidata Skyfall di Adele (che questa notte ha vinto il nono premio della carriera) che probabilmente vincerà ancora mentre quest'anno tra le cinque canzoni insipide la giuria ha preferito Safe & Sound dagli Hunger Games cantata dalla principessa country d'America Taylor Swift; nella stessa categoria si trovava la vincitrice dello scorso Oscar Man Or Muppet.
Le colonne sonore sono divise poi in due: quelle con le canzoni cantate non originali e quelle con le basi sonore appositamente composte. Nella prima categoria, vince Midnight In Paris (c'era della musica, in quel film?), sempre battendo i Muppets, che nel film-musical cantano venti brani originali e accennano tre pezzi esistenti; nella seconda categoria riescono meglio Trent Reznor & Atticus Ross per Uomini Che Odiano Le Donne (film del 2011) come ricompensa per la dimenticanza dell'opera precedente, The Social Network, colonna sonora splendida che nemmeno fu candidata. Il duo ormai consolidato e solidamente aggrappato a David Fincher ma che ha scritto le musiche anche per il Broken City adesso nelle nostre sale, scavalca i mostri sacri John Williams, Hans Zimmer e Howard Shore e batte il premio Oscar Ludovic Bource per l'ora e mezzo di musica di The Artist.
Rientrando nei premi minori delle 81 categorie, questi sono stati assegnati due giorni fa in una cerimonia parallela insieme ad altri 69 grammofoni; ieri sera, questa notte ora italiana, sono invece andate in onda in diretta le consegne dei “più importanti” 11. Qui tutti i candidati e i vincitori.


Compilation Soundtrack
Paradiso Amaro di Artisti Vari
Marley di Bob Marley & The Wailers
 Midnight In Paris  di Artisti Vari
I Muppet di Artisti Vari
Rock Of Ages di Artisti Vari

Score Soundtrack
Le Avventure Di Tintin - Il Segreto Dell'unicorno di John Williams
The Artist di Ludovic Bource
Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno di Hans Zimmer
 Uomini Che Odiano Le Donne  di Trent Reznor & Atticus Ross
Hugo Cabret di Howard Shore
Journey di Austin Wintory [videogioco]

Canzone Originale
Abraham's Daughter da The Hunger Games, scritta e interpretata dagli Arcade Fire
Learn Me Right da Ribelle - The Brave, scritta dai Mumford & Sons, interpretata dai Mumford & Sons e Birdy
Let Me Be Your Star da Smash, scritta da Marc Shaiman & Scott Wittman, interpretata da Katherine McPhee & Megan Hilty
Man Or Muppet da I Muppet, scritta da Bret McKenzie, interpretata da Jason Segel & Walter
Safe & Sound da  The Hunger Games , scritta da T Bone Burnett, Taylor Swift, John Paul White e Joy Williams, interpretata da Taylor Swift & The Civil Wars

Visual Effects Society Awards - vincitori.



Come previsto, è Vita Di Pi a trionfare agli 11esimi Visual Effects Society Awards, i premi che l'associazione dei creatori di effetti speciali dà ogni anno ai migliori della categoria; competendo contro i blockbuster mainstream, il film di Ang Lee guadagna il premio per i Migliori Effetti, per il Personaggio Animato (la tigre Richard Parker), per la Simulazione Animata e la Composizione (la tempesta) pareggiando quindi Ribelle della Pixar, che sul versante animato vince l'Animazione, il Personaggio Animato (Merida), l'Ambientazione (la foresta) e la Simulazione Animata. Premi anche per The Impossible (effetti di supporto), The Avengers (ambientazione e modeling), Lo Hobbit (fotografia) e per la televisione Game Of Thrones che s'accaparra tutto: effetti, personaggio animato, ambiente, composizione.
A questo punto Vita Di Pi – che per questa minuzia digitale era stato presentato come “il nuovo Avatar” ma che non ha neanche lontanamente raggiunto la metà di quegli incassi e quella fama – non ha concorrenti per gli Oscar agli effetti; resta in dubbio quello alla fotografia, che in film di questo genere gli si affianca sempre, e magari per la colonna sonora. Mentre tutti questi elogi al mediocre Ribelle potrebbero rappresentare un obbligo dell'Academy a premiarlo a discapito di Ralph o ParaNorman.
I vincitori, di seguito, per le categorie più comprensibili mentre qui tutto l'elenco (che include programmi non-fiction televisivi e spot):

Effetti Visivi
in un film fantasy, di fantascienza o sci-fi
Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato
Prometheus
 Vita Di Pi 
The Avengers
Battleship

Effetti Visivi
in un film di finzione
Un Sapore Di Ruggine E Ossa
 The Impossible 
Argo
Flight
Operazione Zero Dark Thirty

il 21 marzo.


giovedì 7 febbraio 2013

e sarà ieri.



Looper
id., 2012, USA, 119 minuti
Regia: Rian Johnson
Sceneggiatura originale: Rian Johnson
Cast: Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt,
Paul Dano, Noah Segan, Piper Perabo, Jeff Daniels
Voto: 9/ 10
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Si chiamano “loop” quelle persone che dagli anni '70 del 2000 vengono mandate indietro nei lustri attraverso il viaggio temporale – che è, però, pratica illegale ma utilizzata dalle grandi aziende, come ci spiega Joseph Gordon-Levitt fuori campo all'inizio del film – perché persone considerate “scomode al sistema” e possono allora più facilmente essere fatte fuori perché, in un dato punto a una data ora, compaiono dal nulla, e il “looper” le spara (ma non più lontano di quindici metri). Quello del looper è quindi un mestiere, mestiere taci(u)to che fa guadagnare bene: in lingotti d'oro, che Joe il nostro protagonista nasconde in una botola sotto al tappeto del salotto, per far l'originale. È un Gordon-Levitt che ci appare strano già dall'inizio: il labbro superiore ricurvo, il naso schiacciato con la gobba. Capiremo più avanti il perché di questo trucco; intanto ci imbattiamo in un suo amico, anche lui riconoscibile a fatica, il Paul Dano che da Little Miss Sunshine e Ruby Sparks è passato alla sci-fi facendosi crescere i capelli. Questo, fa l'errore più grande: non sparare al suo loop quando compare e farselo sfuggire. In questo modo, i piani alti si mettono subito in caccia del carnefice e della vittima e, solitamente, ne torturano uno o entrambi o, in certi casi, uno per tutt'e due, perché capita spesso che dal futuro torni ciò che il looper sarà (e questa frase, se non avete visto il film, non la capite). E qui entra in gioco Bruce Willis che, essendo Bruce Willis, sappiamo prima ancora di vedere il film: avrà una scena d'azione surreale in cui nemmeno si sporcherà di sangue e alla fine morirà. Una delle due cose non succederà e non vi dirò quale, o meglio, succederà in un modo ontologicamente diverso. Perché di ontologia, quasi, qua si parla: Looper è un film che di fantasy ha solo l'ambientazione futura e post-futura e qualche mezzo di locomozione e un paio di case e schermi del pc, e per il resto si basa su ciò che l'uomo usa da tutta una vita: l'affetto di coppia, il denaro per campare, l'amore filiale e la lotta alla sopravvivenza. Che in questo caso è lotta al Jeff Daniels candidato al Golden Globe tanto tempo fa per un film meraviglioso che si chiama Il Calamaro E La Balena, ma anche lotta ad un bambino che fra trent'anni potrebbe imparare ad utilizzare i propri poteri di telecinesi e mettere tutti sotto giogo.
Dimenticate la macchina da presa come macchina spettacolare di Inception e l'idea che quella sceneggiatura, quella storia potesse essere «difficilissima da capire». Con molti meno soldi, molti meno effetti superflui e un approfondimento più umano e più intelligente, si crea qui una doppia trama in cui la stessa persona combatte per due cose diverse e l'esito di una finisce con l'influenzare l'altra – o fisicamente, o attraverso i ricordi. E mentre vediamo Emily Blunt bionda che accudisce un bambino mezzo pazzo e crediamo che andrà a finire nel modo più melenso possibile e scontato, e mancano venti minuti ai titoli di coda, ci tocca restare impalati alla poltrona senza batter ciglio per scoprire che no, anche il colpo di scena c'è.
Un film che sfiora l'impeccabile, che i due attori protagonisti, entrambi in sala con altre pellicole (Gordon-Levitt è in Lincoln e Willis in Die Hard), interpretano in maniera scolastica insieme agli interpreti di supporto ma che soprattutto il regista semi-sconosciuto Rian Johnson sa come gestire sul grande schermo con tre o quattro inquadrature magistrali (sono spesso i movimenti della macchina sul proprio asse) e molti effetti di suono, nonostante sia reduce dalla regia di Breaking Bad per la televisione e abbia solo altri due film in carriera (uno sempre con Gordon-Levitt). Ma a volte, una buona trama, ben pensata, senza errori di costruzione e con un paio di altri fattori tecnici, rende molto di più di tanti kolossal; poi però quelli escono in centinaia di copie e questo film finisce in sale grandi quanto l'interno di certi aerei.

Directors Guild Awards - vincitori.



Ben Affleck diventa il terzo regista nella storia (di un lustro e quindici anni) dei Directors Guild Of America Awards a vincere il premio come Miglior Regista per un lungometraggio di finzione a non essere neanche candidato all'Oscar lo stesso anno per la stessa categoria e lo stesso film. Stessa cosa, sappiamo, è successa alla sua più acerrima rivale di questa stagione di premi, la Kathryn Bigelow che nel 2009 questo premio lo vinse per The Hurt Locker contro il suo ex marito regista di Avatar; in 65 anni di premi, è successo quattro volte che il regista vincitore non vincesse poi l'Oscar ma era dal '95 che il nome risultava proprio assente dalla cinquina dei papabili (era, quell'anno, Ron Howard con Apollo 13). A questo punto le chance di Steven Spielberg sono altissime, anche se inizia a mormorarsi una possibile salita sul palco per il penultimo premio della sera (del 24 febbraio) per Ang Lee: sarebbe il terzo Oscar della categoria per il regista coreano (dopo La Tigre E Il Dragone e Brokeback Mountain), e sarebbe in realtà il terzo anche per Spielberg che però anno dopo anno digerisce male piogge di nominations che non concludono nessuna statuetta. Il suo Il Colore Viola dell'84 ebbe 11 candidature senza quella alla regia che qui ai DGA in realtà nel 1985 vinse, a chiudere il cerchio – o aprirlo – in cui è caduto anche Ben Affleck, il quale ha dichiarato, all'incontro dei candidati all'Oscar del giorno successivo a questo premio (dove ha presieduto in quanto produttore di Argo) che non è importante la non-nomination: ha passato troppi anni a guardare la cerimonia da casa. Ricordiamogli però che è un attore, e il primo Oscar l'ha vinto per una dubbia sceneggiatura.
I vincitori e i candidati ai 65esimi Directors Guild Awards per il cinema di finzione e documentario sono di seguito mentre per le categorie televisive (in cui vince, tra gli altri, a sorpresa, la ventiquattrenne Lena Dunham per Girls) rimando al sito ufficiale.


Regia di Film
 Ben Affleck  per Argo
Kathryn Bigelow per Operazione Zero Dark Thirty
Ang Lee per Vita Di Pi
Tom Hooper per Les Misérables
Steven Spielberg per Lincoln

Regia di Documentario
 Malik Bendjelloul  per Searching For Sugar Man
Kirby Dick per The Invisible
David France per How To Survive A Plague
Lauren Greenfield per The Queen Of Versailles
Alison Klayman per Ai Weiwei: Never Sorry

lunedì 4 febbraio 2013

il prossimo film di Alfred Hitchcock.



Hitchcock
id., 2012, UK, 97 minuti
Regia: Sacha Gervasi
Sceneggiatura non originale: John J. McLaughlin
Basato sul romanzo Come Hitchcock Ha Realizzato Psycho
di Stephen Rebello (Il Castoro)
Cast: Anthony Hopkins, Helen Mirren, Scarlett Johansson,
Toni Collette, Danny Huston, Jessica Biel, James D'Arcy
Voto: 7/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
trucco
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L'ennesimo film della tradizione cinematografica che racconta parte della vita di un personaggio ma s'intitola come se raccontasse la sua vita intera o la sua psiche (l'anno scorso in Italia era Marilyn, quest'anno Lincoln) si chiama Hitchcock ma più che raccontare la vita del più celebre e celebrato regista sviluppatosi in UK e maturato in USA ci racconta del suo rapporto con la moglie co-sceneggiatrice (e tante altre cose) e della realizzazione del suo film più difficile, Psycho. E fa ridere: il regista arriva a questa pellicola subito dopo quella che aveva pure ottenuto un successo incredibile, Intrigo Internazionale, e nelle classifiche generali dei film migliori della storia del cinema quest'ultimo film è di poco sopra a quell'altro, ma alle spalle hanno due sviluppi diversissimi. Questo (Psycho) è il film di Hitchcock, è Hitchcock, fortemente voluto da Hitchcock durante una delle solite crisi creative che lo colpivano sempre tra un film e l'altro, quando tornare dietro alla macchina da presa era impresa dura perché reduce da un successo strepitoso, ed è anche il film che egli stesso ha prodotto, per la prima volta completamente privato di fondi di corporations, finanziato dopo aver ipotecato la casa e dimezzato le spese settimanali, sbeffeggiato dal resto del mondo che lo vedeva immerso in un progetto «nato morto». Ma quasi più protagonista di lui è sua moglie Vera, la co-sceneggiatrice e aiutante di una vita, di cui si dipinge qui un'inutile “affair” extra-coniugale come ripicca di tutte le attenzioni del regista per le sue protagoniste bionde; Vera gli chiederà, non credendo più ormai neanche lei alla bontà di questo nuovo progetto che ormai è avviato tra cast, set e compensi ma che non ha una distribuzione a causa di una scena di nudo sotto la doccia con coltello nelle carni, se la causa di questa fissazione sia proprio la risata altrui, e Hitchcock non le risponderà. Perché un genio lo vede già dal libro che sta leggendo, se una storia è particolarmente cinematografica o no. Lo sa cosa vuole il pubblico: basta rimontare ciò che è stato girato.
Bene, questo film è stato inserito (vedremo a breve) nelle liste dei peggiori film dell'anno. Eppure ha come protagonista Anthony Hopkins truccato e conciato in modo da ricordarci (non sembrare) esattamente Alfred Hitchcock, accento british e impulsi ossessivi verso il cibo; ha come co-protagonista la premio Oscar Helen Mirren che non sbaglia mai un film; questi sono circondati da attori del calibro di Scarlett Johansson (nel ruolo di Janet Leigh, la protagonista de L'infernale Quinaln che al proposito dice «rispetto ad Orson Welles è un tesoro») tutta caschetto e devozione, Toni Collette come segretaria nelle vesti che aveva smesso dopo The Hours, Jessica Biel come la Vera Miles che rinunciò al ruolo de La Donna Che Visse Due Volte e ancora James D'Arcy, Danny Huston, Michael Wincott. Allora dove sta il problema? Non nelle interpretazioni, forse, se si prende per buona quella che Hopkins dà dal di sotto di tutte quelle protesi e quello humor nero. Ma anche l'anno scorso The Iron Lady dipingeva, attraverso un film tremendamente brutto, la vita di un personaggio molto truccato per il cinema, e intanto ha vinto due Oscar. Là c'era dietro alla macchina da presa la regista arricchitasi con Mamma Mia!, qua c'è lo sceneggiatore di The Terminal, là c'era dietro al copione la co-sceneggiatrice di Shame e qua il co-sceneggiatore de Il Cigno Nero. Apparentemente tutta gente capace, ma il problema è in ciò che si racconta: vogliamo vedere questo Hitchcock sul set, questo rapporto con le attrici, la ripresa delle scene madri, la reazione della stampa, la prima versione montata male, e invece il film (questo, come The Iron Lady) si perde in ciò di cui il cinema è saturo: le storie d'amore, i matrimoni in crisi, i piccoli tradimenti, il sentimentalismo. Di cui è satura qualsiasi cosa.

domenica 3 febbraio 2013

Art Directors Guild Awards - vincitori.



Si sono svolti la scorsa notte i 17esimi Art Director Guild Awards si nel Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills con la conduzione per la quarta volta consecutiva di Paula Poundstone che ha assistito alla consegna dei premi più importanti dell'anno per i migliori scenografi dell'anno, tra cui ha brillato Sarah Greenwood per l'eccezionale lavoro in Anna Karenina, film ambientato interamente in un teatro che ha richiesto l'ideazione di stazioni e distese di fiori e di uffici e corse di cavalli sempre tra palco e platea. Oltre al film in costume, per il film fantasy o di fantascienza ha trionfato Vita Di Pi sui super-rivali Lo Hobbit e Cloud Atlas aggiudicandosi buone speranze anche in questa categoria (oltre agli effetti e alla fotografia) agli Oscar, per quanto il vero rivale di Anna Karenina è soltanto Les Misérables. Skyfall batte invece le case danneggiate dallo tsunami di The Impossible e le basi segrete C.I.A. di Zero Dark Thirty per il film contemporaneo. Ma i premi sono andati anche ai film, telefilm e speciali televisivi: qui per tutti gli altri vincitori mentre di seguito le nominations cinematografiche.


Period Film
 Sarah Greenwood  per Anna Karenina
Sharon Seymour per Argo
J. Michael Riva per Django
Eve Stewart per Les Misérables
Rick Carter per Lincoln

Fantasy Film
Uli Hanisch & Hugh Bateup per Cloud Atlas
 David Gropman  per Vita Di Pi
Arthur Max per Prometheus
Nathan Crowley & Kevin Kanavaugh per Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno
Dan Hannah per Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato

Contemporary Film
Nelson Coates per Flight
 Dennis Gassner  per Skyfall
Alan MacDonald per Marigold Hotel
Eugenio Caballero per The Impossible
Jeremy Hindle per Operazione Zero Dark Thirty

go Eagles!



Il Lato Positivo
Silver Linings Playbook, 2012, USA, 122 minuti
Regia: David O. Russell
Sceneggiatura non originale: David O. Russell
Basata sul romanzo L'orlo Argenteo Delle Nuvole di Matthew Quick (Salani)
Cast: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro
Jacki Weaver, Chris Tucker, Julia Stiles, Anupam Kher
Voto: 7.8/ 10
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Candidato a 8 Premi Oscar:
film, regia, sceneggiatura non originale, attore, attrice,
attore non protagonista, attrice non protagonista, montaggio
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Il problema dei premi e dei film americani e dei film americani che vengono distribuiti tardi in Italia (questo esce a marzo) e delle distribuzioni internazionali è il seguente: si arriva davanti al film dopo che questo ha vinto un Golden Globe, cinque Satellite, un SAG, tre Critics' Choice, è stato candidato a cinque Spirit, tre BAFTA e otto Oscar ed è la prima commedia (se la vogliamo effettivamente definire commedia) dopo decenni ad ottenere così tante nominations (ci hanno provato Le Amiche Della Sposa, Midnight In Paris, Juno e Little Miss Sunshine ultimamente) e soprattutto è il primo film dopo 31 anni ad ottenere le candidature di tutti e quattro gli attori nelle quattro rispettive categorie, raggiungendo i traguardi di Un Tram Che Si Chiama Desiderio e Viale Del Tramonto.
Bene dunque, consapevoli di tutte queste cose arriviamo al film con quella cosa tremenda che si chiama aspettativa – e siccome non abbiamo letto il libro di Matthew Quick che in Italia non ha letto nessuno, non abbiamo neanche idea di quale sia la trama. E il film comincia, con Jacki Weaver (la sconosciuta di cui tutti mormorarono che ebbe una nomination all'Oscar nella stessa categoria un paio di anni fa per l'australiano Animal Kingdom, e che con questo film non è stata nominata a niente, solo all'Oscar) con Jacki Weaver dunque che va in clinica a recuperare il figlio Bradley Cooper (che sta mille volte meglio coi capelli corti) ricoverato per disturbi mentali di bipolarismo e aggressività improvvisa e se lo porta a casa dove il padre Robert De Niro non lo sta ad aspettare perché non ne sa nulla. Bene dunque: non ci ricorda niente, questo incipit? E se non è l'incipit a ricordarcelo ci penserà lo sviluppo della trama poi: siamo di fronte alla stessa identica struttura narrativa di Little Miss Sunshine solo che non c'è un tentato suicidio né un nipote volontariamente muto. Ci sono, però, bizzarre dinamiche familiari fatte di superstizioni per la posizione dei telecomandi e la maglia indossata in casa che portano gli Eagles a vincere o meno e quindi De Niro a guadagnare i soldi scommessi o a perderli; ci sono dei risvegli notturni alla ricerca spasmodica del filmino del matrimonio dal ripostiglio perché Cooper – che qui si chiama Pat, diminutivo di Patrizio, nome così splendido che l'omonimo padre l'ha dato pure al figlio – è sposato e anche se ha il divieto legale di avvicinarsi alla (ex?) moglie che lo tradì con un collega insegnante in tempi andati, lui non fa che pensare a lei, parlare di lei, desiderare lei ed essere certo che finiranno tra le rose.
Proprio per questa fissazione gli amici-più-o-meno-vicini di casa lo invitano a cena e gli presentano colei che, «abbastanza grande da essere sposata ma non abbastanza da andare in manicomio», ha appena perso il marito e diciamo che non l'ha presa proprio bene, e non ci sta proprio con la testa. Il pazzo cerca il pazzo e il pazzo trova, e le loro conversazioni non rendono il film una commedia (lo fanno, molto di più, le scene in casa) ma un dramma romantico perché sappiamo, noi lo sappiamo, che lui è sposato e ama la moglie ma.
Il parallelismo con Little Miss Sunshine si completa con una performance finale di ballo alla quale partecipa emotivamente tutta la famiglia che finirà poi con l'accontentarsi del risultato che viene, dilettanti tra i professionisti che cercano altro.
In tutto questo, Bradley Cooper brilla più di Jennifer Lawrence anche se è lei che potrebbe vincere l'Oscar (lui non ha speranze) perché il suo personaggio è schizzato in un modo credibile, dice ciò che pensa sempre e comunque, urla se sente una canzone, mentre lei racconta esperienze passate che sfiorano il demenziale, è sola in un modo tenero e detesta ciò che poi, scopriremo, conosce a menadito.
Una non-commedia da andare a vedere, quindi, senza pretese, senza aver visto Little Miss Sunshine, per scoprire un meraviglioso e inaspettato Robert De Niro, una Jacki Weaver tutta cucina e compostezza nel quartiere e una coppia che sullo schermo, chi l'avrebbe mai detto, funziona, e funziona, chi l'avrebbe mai detto, grazie al David O. Russell che ci ha fatto sputare sangue col truce e trucido The Fighter due anni fa.

sabato 2 febbraio 2013

for your consideration: best supporting actress.



Non ho resistito, sono incappato in questo video e per coerenza con la recensione precedente ho dovuto pubblicarlo: perché ho riso quasi ad ogni frase.
Come se ce ne fosse bisogno, Alberto Belli (regista messicano di cortometraggi e figlio di italiani emigrati) impacchetta un'altra versione di I Dreamed A Dream in cui la protagonista (una Anne Hathaway interpretata da Emma Fitzpatrick, la Sharon di The Social Network che vedremo a breve nell'horror The Collection) ricorda alla giuria dell'Academy dei chili che ha perso, il nuovo taglio di capelli che ha accettato, la sfiga del personaggio che interpreta. «Consider me on Oscar night» esordisce il ri-arrangiamento di Robert Hill, che non a caso prende il titolo For Your Consideration che si stampa solitamente sulle locandine e sui banner di questo periodo per ricordare le categorie in cui si sono ottenuti premi e nominations (più o meno veramente); ma, come dicevo, qui non ce ne dovrebbe essere bisogno: migliore attrice non protagonista ai Golden Globes, SAG Awards, Critics' Choice Awards, l'ex Pretty Princess ed conduttrice degli Oscar di due anni fa con James Franco, Anne Hathaway ha la strada spianata che solo Sally Field potrebbe intralciarle – ma la Field, di Oscar, ne ha già due.