giovedì 16 maggio 2013

sussurri e champagne.



Il Grande Gatsby
The Great Gatsby, 2013, Australia, 142 minuti
Regia: Baz Luhrmann
Sceneggiatura non originale: Baz Luhrmann & Craig Pearce
Basata sul romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald
Cast: Tobey Maguire, Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan,
Joel Edgerton, Elizabeth Debicki, Isla Fisher
Voto: 6.9/ 10
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Era marzo quando si iniziò a parlare dell'uscita di un film di Baz Luhrmann basato sul libro di Fitzgerald ed era poi maggio quando spuntò un trailer con una locandina. Questo film era, dunque, pronto da quasi un anno, al punto che se ne aspettava l'imminente uscita a dicembre. Ma l'uscita non ci fu, perché il regista voleva portare il 3D ai «massimi livelli» che la tecnica permette, facendo insomma la pernacchia allo Hugo Cabret da tanti celebrato. E già dall'inizio della pellicola, in effetti, ci si rende conto che – a differenza di molte altre occasioni – il 3D c'è. In certi momenti anche troppo. Ma non è certamente solo questo ciò che ha tolto il sonno al caro vecchio Baz: gli era andata male (molto male) con Australia e allora il “visionario” regista australiano mette in disparte la sua australiana musa (che ieri a Cannes ha visto il film sulla poltrona della giuria) ed è tornato indietro, a ricalcare il suo film di maggior successo. E già dall'inizio, dicevo, 3D a parte, l'eco del Moulin Rouge! si sente e nella sala rimbomba, dal montaggio frettoloso e dagli effetti posticci, dalle sovrapposizioni di immagini grottesche, dalla moltitudine di colori e suoni e soprattutto dalla presenza di uno scrittorucolo che si mette a sedere e a battere a macchina (in questo caso, però, comincia con la penna) la storia che ci racconta da fuori campo. Che è la storia d'America per eccellenza, successiva forse solo a Il Giovane HoldenIl Buio Oltre La Siepe (entrambi titoli ben tradotti, noto): una storia di un romanzo di uno scrittore considerati da alcuni la miglior prosa e il miglior prosatore del Novecento ma che a me personalmente scivola addosso come il VivinCi, senza effetti collaterali, per cui la mia lettura del romanzo, se non qualche accorgimento poi scoperto, che riguarda soprattutto la predizione del crollo del '29 e un'aura di rammarico per “l'età del jazz”, mi ha riportato alla mente quegli stereotipi leggermente sopra agli Harmony tipo I Ponti Di Madison County o giù di lì.
Lo scrittore di cui prima, che per campare si mette a vendere azioni a Wall Street in una cornice bizzarramente tridimensionale ma fatta di foto d'epoca, prende una casetta sulla costa di New York di fianco alla villa gigantesca di un tale Gatsby che a quanto pare ogni fine settimana si mette a dare feste matte senza mai parteciparvi: dicono sia stato ad Oxford, sia un assassino, sia stato in guerra. Lui né annuisce né smentisce: non c'è. O meglio: c'è ma si confonde tra la servitù, e si rivela solo a chi vuole. E dunque, l'animo degli anni '20 tutti alcool e musica – che qui, trovata geniale, non è puro jazz ma una compilation di voci contemporanee dell'R&B risuonate dalla Bryan Ferry Orchestra o riarrangiate da Craig Armstrong (che già lavorò al Moulin!) – è qui, in questa villa, mentre Francis Scott Fitzgerald guarda dall'alto e sa che presto l'incanto finirà. E finirà – nel romanzo e nel film – per un amore tenuto lontano e vicino, nascosto e ben presente, quello di Jay Gatsby per la sposata Daisy cugina del protagonista Tobey Maguire tanto pesce lesso quanto lo fu Sam Waterston nel film del '74 – film che, diretto da Jack Clayton e sceneggiato da F. F. Coppola, fu il punto d'arrivo per Mia Farrow che impersonò la più giuliva Daisy della storia del cinema (si contano altre tre trasposizioni) qui ricalcata, nemmeno tanto forzatamente, dalla meravigliosa Carey Mulligan a cui viene dato troppo poco spazio, dato che se lo prende tutto Leonardo DiCaprio: un Oscar che, se non lo vince per questa interpretazione (uguale, certo, a molte altre, ma padrona dell'unico buon personaggio della pellicola) non lo vincerà più.
In sostanza: l'attesa, come sempre, delude. E delude soprattutto perché: il film è incapace di mantenere un proprio ritmo: l'apertura troppo diluita, allungata inutilmente in presenza di uno psicologo, così come il finale totalmente scivolato, cozzano con i momenti frizzanti del film, di azione, di baldoria, che a loro volta cozzano con la quiete di certe altre lunghe scene – penso al the a casa di Nick – che ricalcano pari pari la pellicola degli anni '70. Con una differenza: qui si sono spesi una quantità incredibile in più di soldi per scene e costumi che ormai non ci sorprendono più.

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