domenica 21 luglio 2013

#Cannes66 #Farhadi



Il Passato
Le Passé, 2013, Francia, 130 minuti
Regia: Asghar Farhadi
Sceneggiatura originale: Asghar Farhadi
Cast: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa,
Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin, Sabrina Ouazani
Voto: 6.9/ 10
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Premio dell'Interpretazione Femminile:
Bérénice Bejo
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Galeotta fu la cerimonia degli Oscar dell'anno scorso: Bérénice Bejo candidata seduta in platea applaudiva al Miglior Film Straniero per una volta vinto dal miglior film straniero effettivo che si chiamava Una Separazione ed era diretto da Asghar Farhadi, regista praticamente boicottato in patria (l'Iran), patria che l'anno successivo – e cioè questo – film agli Oscar non ne ha mandati per ribellione. Bene, l'attrice francese e il regista iraniano si sono incontrati per un film quasi tutto iraniano ma girato in Francia, e in francese, con traduttori continuamente presenti sul set e una sceneggiatura bilingue scritta dallo stesso regista che già due anni fa aveva dimostrato la sua abilità straordinaria nello stendere i dialoghi. E lo diciamo subito: l'abilità è impazzita.
Questo Il Passato, che ha un titolo contenitore molto più grosso di quanto in realtà inghiotte, è la saga sentimentale di una donna all'apparenza non così frivola come poi si rivela (e la bravuta della Bejo è interpretare una gatta morta senza miagolare), sposata più volte e incapace di sostenere in maniera matura i rapporti sociali. Non riesce a domare una figlia che la detesta per il nuovo compagno a breve marito né riesce a domare il di lui unicogenito più piccolo. Si vede i due uomini della vita entrambi, contemporaneamente, in casa, che giocano a evitarsi o a fingere dialoghi. La scena migliore è il silenzio a tavola durante un temporale. Bene, il film su questa famiglia allargata serve a farci intuire vicende andate che hanno portato a silenzi e grida, soprattutto riguardo alla moglie defunta suicida del nuovo compagno, la quale ha ricevuto...
Niente, non c'è paragone con il vecchio splendore mediorentale: premio alla Bejo come Attrice solo perché francese in un anno di film francofili o francofoni e critica divisa perché dubbiosa. La tensione mentale che Una Separazione creava nello spettatore (i continui colpi di scena portavano a schierarsi sempre con una persona diversa e cambiare le idee sui personaggi) diventa qui noia mortale su episodi dal gusto modernizzato (compaiono delle mail in una casa lontana dal mondo) che bruciano di un fuoco poco molto interessante. Il colpo di scena c'è, ma l'encefalogramma resta uguale.
Accanto alla Bejo, Farhadi richiama a sé l'Ali Mosaffa del film precedente – Orso d'Argento a Berlino come migliore attore, che pare invecchiatissimo, e il protagonista di un altro film dell'anno, che l'Oscar non lo vinse ma quasi, francese anche lui (il film), Tahar Rahim de Il Profeta, elogiato a “il Padrino dei giorni nostri”. Cioè, gli ingredienti sono tutti giusti ma la pentola francese ha qualche difetto.
Piace a: le signore che in casa al pomeriggio d'estate che fa brutto tempo accendono La7 e se la godono coi film della Davis. Non piace a: gli amanti di Agatha Christie.

#Cannes66 #Hirokazu



Like Father, Like Son
Soschite Chici Ni Naru, 2013, Giappone, 120 minuti
Regia: Kore-Eda Hirokazu
Sceneggiatura originale: Kore-Eda Hirokazu
Cast: Fukuyama Masaharu, Machiko Ono, Yôko Maki, Lily Franky
Voto: 7.8/ 10
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Gran Premio della Giuria
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In una casa che «sembra la camera di un hotel» una composta famiglia composta da madre amorevole, figlio educatissimo e padre treno di galateo conducono la loro vita fatta di piccoli momenti insieme e molti lavori per apparire al meglio: in ordine il vestito, in ordine il salotto, persino le bugie da raccontare all'insegnante della scuola privata il giorno dell'ammissione devono essere dette con garbo. Trenta minuti di televisione al giorno, non si mastica la cannuccia della bibita e poi al saggio di pianoforte se gli altri fanno meglio bisogna impegnarsi per essere ancora più bravi l'anno successivo.
Il padre (perdonate ma ho un problema coi nomi giapponesi per cui ho rimosso tutti gli appellativi di questi personaggi) padrone di questa casa guarda al figlio e si domanda: com'è possibile?, zero competitività, zero voglia di arrivare – com'è possibile, si domanda, che sia venuto fuori un bambino (di sei anni) tanto diverso? Risposta pronta: l'ospedale chiama, sei anni son passati e ci siamo resi conto che due pargoli sono stati invertiti. Le famiglie corrono dall'ostetrica senza pancia gonfia ma con gli occhi pesti: com'è possibile?, ma quando mai? Si pensa alla denuncia ma più ancora al figlio biologico. La suddetta famiglia incontra quella che ha allevato il figlio illegittimo e peggio di così non si poteva andare: i due nuclei non sarebbero mai stati uniti da nient'altro, quartiere diverso, reddito diverso, diverso modo di gestire gli spazi sociali (i vestiti della locandina aiutano). E se la madre rigida si lascia ammorbidire, il padre marmo non si piega e inizia ad osservare con sempre più quesiti. Forse il figlio che gli somiglia è là. L'ospedale suggerisce: scambiate i ragazzini per un periodo, amalgamate le famiglie. Mica facile: il pischello tutto giochi e fratellini si ritrova nella camera di un hotel di cui sopra e ne scappa. La madre è sempre più morbida, il padre zero: si scioglierà nella meravigliosa sequenza finale che non brilla di novità né di realismo per i dialoghi ma fonde una dolcezza che in sala necessitavamo di ricevere.
Tema difficilissimo ed effettivamente non così inflazionato, affrontato in modo elegante, totalmente privo di giudizio morale o religioso. Il realismo sta nelle menti arrovellate delle persone che un giorno devono scegliere se tenere il figlio cresciuto o quello partorito dove c'è: da una parte il sangue e l'anonimato, dall'altra l'affetto e nessuna parentela.
Premio della Giuria e Menzione Speciale della Giuria Ecumenica (insieme alla Golino di Miele) per Kore-Eda Hirokazu che era passato da Cannes già due volte e se n'era tornato a mani vuote (ma con Nessuno Lo Sa ha fatto nascere un piccolo cult); i più sensibili piangeranno, ma chissà quando: in Giappone il film uscirà a ottobre e in Italia ancora non ha una data di uscita – per cui non confondetelo con Tale Padre Tale Figlio di Rod Daniel dell'87.

#Cannes66 #Kechiche



La Vie D'Adèle
La Vie D'Adèle - Chapitre 1 & 2, 2013, Francia, 187 minuti
Regia: Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura non originale: Abdellatif Kechiche & Ghalia Lacroix
Basata sulla graphic novel Blue Is The Warmest Color di Julie Maroh
Cast: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Aurélien Recoing,
Catherine Salée, Alma Jodorowsky, Karim Saidi
Voto: 7.7/ 10
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Palma d'Oro al miglior film
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Si chiacchiera nella fila davanti alla mia.
«La Vie D'Adèle l'hai visto?» dice uno, «sì» dice l'altro, «e allora?» chiede uno, «tre ore frizzantissime» accenna un sorriso l'altro «tre ore – e quaranta minuti di amplessi gay». Ride. «Apparte gli scherzi, tre ore che non si sentono».
Si chiacchiera nella fila dietro alla mia.
«La Vita Di Adèle?» dice uno, «inguardabile. Una schifezza. Ero con mia moglie e mia nipote: hanno vomitato tutto il tempo. Vabbè, mia moglie ha la mia età, ma la ragazza c'ha vent'anni. Stava male durante il film, e alla fine: giù a vomitare».
Dunque. Con questo film succede questa cosa: non la solita cosa che o lo si ama o lo si odia perché io né uno né l'altro, ma succede questa cosa per cui in cento-ottanta-sette minuti ti domandi com'è che si mangino tanti spaghetti e soprattutto si vedano così tanti orgasmi, e così lunghi, così dettagliati; ma attenzione: il sesso è finto, dicono le attrici in sala stampa a Cannes, avevano protesi addosso e «non si sono neanche toccate». Tant'è: non l'avremmo mai colto, dati gli schiaffi sulle natiche e il naso tra le cosce e i seni stretti che vediamo. Ma il film non è solo questo, non finisce certo qua. Però succede questa cosa: che si pensa che prima vincevano la Palma d'Oro le pellicole così, senza nemmeno un bacio in bocca, e adesso invece... E la forza de La Vie D'Adèle sta tutta qua: nel suo essere semplicemente una trasposizione su schermo grande di un pezzo di vita vera, una vita che mischia la graphic-novel da cui è tratto al romanzo incompiuto di Marivaux La Vie De Marianne.
L'Adèle del titolo sarebbe Adèle Exarchopoulos – cognome impronunciabile che dovrebbe essere pronunciato a febbraio, alla cerimonia degli Oscar, perché a vent'anni questa ragazza (giustamente decretata «la rivelazione del festival») è stata in grado di illuderci che uno spaccato di storia proiettata fosse un documentario o uno scorcio vero: mai nessuno(/a) fu più realistico(/a) né spontaneo(/a) come lei che con una scioltezza da navigata diva piange e ride e gode e s'infuria in questi cento-ottanta-sette minuti buttati tutti sulla sua spalla e sulla sua vita non intera: alla fine del liceo prova a uscire con un ragazzo ma in sogno le compare la stramba coi capelli celesti che ha visto in cortile. Si tocca, la tocca, e il passaggio tra le due realtà sarà breve. La relazione con questa tinta Emma sarà fatta di alti e bassi – una si nasconde l'altra è apertissima in casa, una forse prova ancora attrazione per i ragazzi l'altra addirittura per un'altra donna. Un Brokeback Mountain che, anche qui, guai a dire “film lesbo” perché è in realtà un “film umano”, anche se là si ribaltava lo stereotipo del gay rendendolo cowboy e qui la lesbica media è artista o maestra d'asilo. Complimenti vivissimi fatti anche a Léa Seydoux (Bastardi Senza Gloria, Midnight In Paris), attrice di punta della nouvelle France, richiestissima pagatissima ma qui oscurata per buona parte da colei che avrebbe dovuto vincere la Palma alla Migliore Interpretazione. Invece, viene chiamata a ritirare quella al Miglior Film col regista Abdellatif Kechiche; la motivazione della giuria: il film non sarebbe niente senza le due protagoniste. Lui (il regista) a Cannes non c'era mai stato – a Venezia sì, tre volte, con Cous Cous tra gli altri, e il suolo Italico non gli aveva mai dato quasi niente. Quello francese sì, ma attenzione: non è tanto il film che stiamo premiando quanto l'illusione dietro a esso.