domenica 21 luglio 2013

#Cannes66 #Kechiche



La Vie D'Adèle
La Vie D'Adèle - Chapitre 1 & 2, 2013, Francia, 187 minuti
Regia: Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura non originale: Abdellatif Kechiche & Ghalia Lacroix
Basata sulla graphic novel Blue Is The Warmest Color di Julie Maroh
Cast: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Aurélien Recoing,
Catherine Salée, Alma Jodorowsky, Karim Saidi
Voto: 7.7/ 10
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Palma d'Oro al miglior film
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Si chiacchiera nella fila davanti alla mia.
«La Vie D'Adèle l'hai visto?» dice uno, «sì» dice l'altro, «e allora?» chiede uno, «tre ore frizzantissime» accenna un sorriso l'altro «tre ore – e quaranta minuti di amplessi gay». Ride. «Apparte gli scherzi, tre ore che non si sentono».
Si chiacchiera nella fila dietro alla mia.
«La Vita Di Adèle?» dice uno, «inguardabile. Una schifezza. Ero con mia moglie e mia nipote: hanno vomitato tutto il tempo. Vabbè, mia moglie ha la mia età, ma la ragazza c'ha vent'anni. Stava male durante il film, e alla fine: giù a vomitare».
Dunque. Con questo film succede questa cosa: non la solita cosa che o lo si ama o lo si odia perché io né uno né l'altro, ma succede questa cosa per cui in cento-ottanta-sette minuti ti domandi com'è che si mangino tanti spaghetti e soprattutto si vedano così tanti orgasmi, e così lunghi, così dettagliati; ma attenzione: il sesso è finto, dicono le attrici in sala stampa a Cannes, avevano protesi addosso e «non si sono neanche toccate». Tant'è: non l'avremmo mai colto, dati gli schiaffi sulle natiche e il naso tra le cosce e i seni stretti che vediamo. Ma il film non è solo questo, non finisce certo qua. Però succede questa cosa: che si pensa che prima vincevano la Palma d'Oro le pellicole così, senza nemmeno un bacio in bocca, e adesso invece... E la forza de La Vie D'Adèle sta tutta qua: nel suo essere semplicemente una trasposizione su schermo grande di un pezzo di vita vera, una vita che mischia la graphic-novel da cui è tratto al romanzo incompiuto di Marivaux La Vie De Marianne.
L'Adèle del titolo sarebbe Adèle Exarchopoulos – cognome impronunciabile che dovrebbe essere pronunciato a febbraio, alla cerimonia degli Oscar, perché a vent'anni questa ragazza (giustamente decretata «la rivelazione del festival») è stata in grado di illuderci che uno spaccato di storia proiettata fosse un documentario o uno scorcio vero: mai nessuno(/a) fu più realistico(/a) né spontaneo(/a) come lei che con una scioltezza da navigata diva piange e ride e gode e s'infuria in questi cento-ottanta-sette minuti buttati tutti sulla sua spalla e sulla sua vita non intera: alla fine del liceo prova a uscire con un ragazzo ma in sogno le compare la stramba coi capelli celesti che ha visto in cortile. Si tocca, la tocca, e il passaggio tra le due realtà sarà breve. La relazione con questa tinta Emma sarà fatta di alti e bassi – una si nasconde l'altra è apertissima in casa, una forse prova ancora attrazione per i ragazzi l'altra addirittura per un'altra donna. Un Brokeback Mountain che, anche qui, guai a dire “film lesbo” perché è in realtà un “film umano”, anche se là si ribaltava lo stereotipo del gay rendendolo cowboy e qui la lesbica media è artista o maestra d'asilo. Complimenti vivissimi fatti anche a Léa Seydoux (Bastardi Senza Gloria, Midnight In Paris), attrice di punta della nouvelle France, richiestissima pagatissima ma qui oscurata per buona parte da colei che avrebbe dovuto vincere la Palma alla Migliore Interpretazione. Invece, viene chiamata a ritirare quella al Miglior Film col regista Abdellatif Kechiche; la motivazione della giuria: il film non sarebbe niente senza le due protagoniste. Lui (il regista) a Cannes non c'era mai stato – a Venezia sì, tre volte, con Cous Cous tra gli altri, e il suolo Italico non gli aveva mai dato quasi niente. Quello francese sì, ma attenzione: non è tanto il film che stiamo premiando quanto l'illusione dietro a esso.

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