giovedì 31 ottobre 2013

le mamme.



Two Mothers
Adore, 2013, Australia/ Francia, 100 minuti
Regia: Anne Fontaine
Sceneggiatura non originale: Christopher Hampton & Anne Fontaine
Basata sul romanzo Le Nonne di Doris Lessing
Cast: Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel,
James Frecheville, Ben Mendelsohn, Sophie Lowe
Voto: 5.1/ 10
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Lil e Roz (primi due di una serie di nomi bisillabici: Ian, Tom, Mary, Saul...) sono amiche dalla prima infanzia, infanzia trascorsa nelle due vicine case sopra alla spiaggia australiana. Restano amiche anche dopo i rispettivi matrimoni, anche dopo che uno dei due finisce; restano amiche quando i figli crescono e quando partono per studiare, e tutta questa amicizia è riassunta nei primi dieci minuti e in qualche calice di vino che le due, cappello di paglia in testa e veste di lino addosso, sorseggiano sul patio davanti all'oceano senza assolutamente niente da fare nelle giornate piene di sole. In realtà lavorano, e che lavoro facciano non lo capiamo benissimo, ma il logo dell'azienda ha una barca a vela e il posto un'azienda sembrerebbe. Sono, ad ogni modo, abbastanza ricche da permettersi più giorni liberi di quelli lavorativi e un film intero che parla delle loro inezie, dei problemi non primari. Perché bicchiere dopo bicchiere i due figli, ovviamente amiconi, tornano ai nidi e se la spassano col surf e con le cene in riva al mare e questi due pargoli sono in età post-adolescenziale per cui i muscoli si sono sviluppati tutti e i peli usciti sono stati estirpati e pare, spesso, che una doccia, una nuotata, una ripresa un po' più larga sia un pretesto per far vedere il pettorale, il bicipite, l'addome piatto. Nella trappola del muscolo duro sotto alla pelle glabra cade anche Robin Wright, che una sera si lascia avviluppare dal biondo Xavier Samuel la cui faccia c'è nota per Tre Uomini E Una Pecora e per Anonymous: i due, senza nascondersi neanche troppo, se la intendono in casa alla notte, e il figlio di lei, James Frecheville (Animal Kingdom), dopo averli scoperti per ripicca si fionda nelle camere dirimpetto a provarci con Naomi Watts – che sta sbagliando un film dopo l'altro, e di questo è anche produttrice. I nodi vengono al pettine e le coppie iniziano a cenare insieme e a prendere il sole mano nella mano. Le due sempiterne amiche solo in un pomeriggio, di sfuggita, si domandano: stiamo facendo la cosa giusta?, se stiamo bene allora sì. Ma il tracollo è dietro l'angolo.
Il premio Nobel Doris Lessing si rigirerebbe nella tomba, se fosse morta; il primo dei tre racconti del suo libro Le Nonne (Giangiacomo Feltrinelli Editore, pagine 250, € 7,50 – qui sfogliabile), che dà il titolo alla raccolta, si appiattisce superficialmente e diventa storia semi-incestuosa fatta per sconvolgere lo spettatore medio(cre) senza però dargli materiale su cui riflettere; si vede ancora una natica, una coscia, un amplesso non necessario. Nessun problema etico, nessuna difficoltà in società, nessun imbarazzo tra persone con cui si è cresciuti. La sceneggiatura, poi, rasenta lo scandalo: frasi-cliché, irreali, situazioni allungate e improponibili (due ventenni che si mettono a ballare nel salotto mezzi brilli per aver bevuto coi genitori) e quella delle due coppie che è nata per dispetto non ci convince dal primo momento.
Film da vedere in streaming mentre si cucina.

space, odyssey.



Gravity
id., 2013, USA, 92 minuti
Regia: Alfonso Cuarón
Sceneggiatura originale: Alfonso & Cuarón & Jonas Cuarón
Cast: Sandra Bullock, George Clooney
Voto: 8.9/ 10
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Era il 2006 quando il Messico invase gli Oscar: Guillermo Del Toro, Alejandro Gonzáles Iñárritu e Alfonso Cuarón si facevano applaudire rispettivamente per Il Labirinto Del Fauno, Babel (scritto da un altro messicano che poi sarebbe diventato regista, Guillermo Arriaga) e I Figli Degli Uomini, pluricandidati con nominations per altri cineasti messicani. Di questi registi poi abbiamo continuato a parlare e la loro provenienza messicana ha superato il confine; di Cuarón dicevamo all'epoca “il regista del terzo Harry Potter”, come adesso diciamo “il regista de I Figli Degli Uomini”, come fra due anni diremo “il regista di Gravity” – perché questo Gravity segna una tappa sotto molti punti di vista. È, innanzitutto, il film che mancava: un kolossal non fantasy ma fantascientifico, un blockbuster che piace ai critici perché è, anche, un'opera d'arte. E lo è purtroppo solo nella prima metà, la metà del rigore tecnico e della tensione ansiogena, che si consuma nella lunga inquadratura di Sandra Bullock rannicchiata su se stessa, fluttuante, centrale nello schermo mentre il vestito appena tolto fa dondolare il tubo dell'ossigeno a mo' di cordone ombelicale per formare la più celebre immagine che la fantascienza abbia mai partorito. 2001: Odissea Nello Spazio viene in mente spesso, soprattutto negli esterni: lì le astronavi e le navicelle erano monumenti scultorei sopraffini che danzavano tra gli archi (musicali) e le volte (celesti) mentre qui le attrezzature appaiono come macchine, ferraglia in grado di disfarsi e decomporsi; lì il tempo era rarefatto nel niente da fare mentre qui il tempo vola e quest'ora e mezzo si brucia in poco perché il da fare è troppo e l'ossigeno scarseggia e le forze troppo poche: Ryan Stone è un ingegnere medico (donna, ma il papà voleva un maschio) alla sua prima esperienza nello spazio, partita per tenere sotto controllo pannelli e comunicazioni con la terra; la accompagna il solito George Clooney che fa la parte del marpione, chiacchierone esperto del campo sempre a suo agio e sempre in grado di dire la cosa giusta al momento giusto, apparente idiota ma necessità del gruppo. I due si trovano fuori dal loro mezzo quando una pioggia improvvisa di meteoriti distrugge parte dell'attrezzatura e la combriccola tutta, e si ritrovano soli superstiti a dondolare e schiantarsi contro le antenne di ricezione e contro di noi, avanzando nel primo grande utile 3D degli ultimi anni. Questi venti minuti iniziali sono una perla aptica: un unico pianosequenza fluttua tra i personaggi e i loro equilibri perduti e ci immerge in una dimensione priva di gravità a cui crediamo ciecamente perché rigorosamente ricreata in digitale, è l'epopea delle leggi fisiche, l'esaltazione della prospettiva, a cui si aggiunge un'impeccabile uso della telecamera e soprattutto del suono: entriamo e usciamo dallo scafandro della Bullock, passiamo da una soggettiva a una panoramica spettacolare di quella che è la Terra vista dall'estremo alto. Accade poi però che il blockbuster, in quanto tale, e in quanto blockbuster americano, si debba piegare alle leggi del patetismo, per cui alla dottoressa Ryan appioppiamo una figlia morta a quattro anni che invocherà in un momento di debolezza subito dopo aver abbaiato, subito prima del finale che ormai aspettiamo, pretendiamo di vedere – e che arriva. Viene a questo punto in mente anche Buried, storia di un uomo in una bara (qui gli uomini sono in due, in uno e mezzo, per tutto il film) che per lo stesso tempo ci angoscia e alla fine ci spiazza (guarda un po' anche quel regista era ispanico), perché un po' un altro finale ce lo aspettavamo: ma non possiamo avere tutto. Abbiamo, qua, un'incredibile maestria tecnica, dalla regia impeccabile im-pec-ca-bi-le alla fotografia di Emmanuel Lubezki che finalmente magari gli dànno quest'Oscar (dopo The Tree Of Life e altre quattro nominations) fino al montaggio sonoro, abbiamo una brava attrice e un budget di quasi 56 milioni che al momento rappresentano un quarto di quanto il film ha incassato in America. Non possiamo lamentarci della trama tutta tensione e dei personaggi banalotti: Avatar sotto questo punto di vista era inaffrontabile.

martedì 29 ottobre 2013

Hollywood Film Festival 2013 - vincitori.



Comincia la strada verso gli Oscar da un festival piccolo piccolo che però si svolge nella capitale del cinema; all'Hollywood Film Festival concorrevano blockbuster come Cattivissimo Me 2, Fast & Furious 6, Una Notte Da Leoni 3, Monsters University, World War Z, l'ultimo Star Trek. Hanno avuto la meglio, però, le opere americane di due registi canadesi: Jean-Marc Vallée, che costruì il microcosmo familiare indie di C.R.A.Z.Y. e poi la giovinezza della regina Vittoria che lo portò agli Oscar (Migliori Costumi) – e il Denis Villeneuve del meraviglioso La Donna Che Canta. Del primo è il drammatico Dallas Buyers Club, storia di un elettricista texano e della sua convivenza col virus dell'HIV, premio dell'interpretazione maschile a uno scheletrico Matthew McConaughey e a sorpresa Miglior Attore Rivelazione Jared Leto; del secondo è Prisoners, altra magrezza eccessiva – questa volta di Jake Gyllenhaal, Miglior non Protagonista circondato da una valanga di mostri sacri (Viola Davis, Melissa Leo, Hugh Jackman, Terrence Howard, Maria Bello, Paul Dano) sebbene il Miglior Cast sia quello di Osage County (il prossimo anno in Italia), commedia triste con, tra gli altri, Meryl Streep e Julia Roberts intorno all'attore dell'anno Benedict Cumberbatch e ai dimenticati Ewan McGregor e Abigail Breslin. La produzione visiva migliore risulta quella di American Hustle, nuova pellicola di David O. Russell dopo il super successo indipendente de Il Lato Positivo, che ritorna a dirigere Bradley Cooper, Jennifer Lawrence e Robert De Niro dopo nemmeno un anno (dall'1 gennaio il film sarà in Italia). Ma i premioni vanno al campione d'incassi The Butler di Lee Daniels (regista di Precious e del becero The Paperboy), costato 30 milioni ne ha incassati, solo in America, 115 in due mesi; e a 12 Years A Slave, attesissima nuova pellicola di Steve McQueen, il miglior giovane regista sulla piazza, autore del tremendo e rigorosissimo Hunger e del tanto discusso Shame – a quanto pare con questo lavoro riuscirà a farsi notare agli Oscar.
Di seguito, tutti i vincitori di tutte le categorie.

sabato 26 ottobre 2013

Federico e Giulietta.



A vent'anni quasi esatti dalla sua scomparsa (sette mesi dopo l'Oscar alla Carriera), proseguono le celebrazioni e gli inchini di fronte alla figura-macigno di Federico Fellini che il nostro cinema attuale ci continua a dimostrare essenziale fonte d'ispirazione. Nell'anno de La Grande Bellezza, album di citazioni neanche troppo velate, e soprattutto di Che Strano Chiamarsi Federico dell'amico Scola, non poteva sfuggire l'edicola con la solita collana monografica, che Panorama dal 17 ottobre ci propone: da La Dolce Vita in poi, con una piccola parentesi per I Vitelloni, ogni settimana a € 12,90 il pubblico italiano potrà acquistare i film centrali del Maestro, come al solito, e non riscoprire i capolavori del post-esordio (La Strada, Le Notti Di Cabiria, entrambi Oscar al Film Straniero) e il caposaldo 8 1/2 recuperabile solo dopo il restauro di Mediaset (qui info e piano dell'opera).
Non scappa neanche la televisione, che certo non può mettersi a proporre i film matti indigeribili dal pubblico, e che quindi smorza i toni raccontando il più discusso matrimonio italiano: su La7D (canale 29) alle 20:30 andrà in onda, questa sera, Giulietta E Federico, documentario di mezz'ora diretto da Mario Orfini nel 2010. A partire dal ristorante del primo incontro, fino all'ultima cena insieme, il film ripercorre le vite e le carriere dei due più grandi personaggi del cinema italiano del secondo dopoguerra avvalendosi dei contributi di Mario Sesti (regista de L'ultima Sequenza, altro piccolo documentario sul reale finale di 8 1/2 andato perduto) e Giuliano Gèleng, scenografo degli ultimi film felliniani. Nel ruolo di Giulietta, a raccontare la storia, Maria Cristina Blu.
Seguono Ginger E Fred (ore 21:10), di cui abbiamo già parlato (bene) e Il Casanova (ore 23:30), Oscar ai Costumi di Danilo Donati (anche scenografo, come amavano essere i costumisti di Fellini), ruolo da protagonista per Donald Sutherland, oggi 78enne padre dell'altrettanto celebre Kiefer, protagonista scelto dopo i provini a Gassman e Sordi di cui il film di Scola ci fa sapere nell'unica sequenza realmente documentaristica. Il film rappresenta l'apoteosi dell'ingegno scenografico felliniano: il mare di sacchi di plastica, il testone che si alza dall'acqua, l'uccellino degli amplessi e gli amplessi danzati in una fintissima Venezia visibilmente ricostruita in studio. Due BAFTA e un David alle musiche di Nino Rota per un film che, come Ginger E Fred e il Satyricon è disponibile in dvd per Dall'Angelo Pictures.
L'effettivo ventesimo anniversario della morte di Fellini si celebrerà il 31 ottobre, anche notte di Halloween; il regista romagnolo non poteva scegliere modo e momento più personali per lasciarci: gran parte del mondo si travestiva, e lui mangiava.

venerdì 25 ottobre 2013

il film cileno.



Gloria
id., 2013, Cile, 110 minuti
Regia: Sebastián Lelio
Sceneggiatura originale: Sebastián Lelio & Gonzalo Maza
Cast: Paulina García, Sergio Hernández, Diego Fontecilla,
Fabiola Zamora, Coca Guzzini, Hugo Moraga
Voto: 8/ 10
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Ma dov'è stata questa Paulina García in tutti questi anni?, perché mai l'hanno relegata a una carriera di serie televisive cilene e l'hanno fatta arrivare al cinema solo adesso?, come abbiamo fatto a stare senza?
Un film che non è un film ma che è un personaggio che lei si sobbarca dalla prima all'ultima scena senza mai sparire dal campo e che le è valso l'Orso d'Argento per l'interpretazione femminile a quest'ultima Berlinale.
Un film che non è un film ma un romanzo di formazione traslato dalla giovinezza di Holden, di Törless, di Werther a una divorziata cinquantenne che porta avanti un lavoro macchinoso per cui non salta di gioia, una serie di telefonate ai figli che non rispondono, una sequela di uscite in locali per single, separati, piacioni dove balla e beve e rimorchia una bottarella semplice di cui non vedrà futuro. E procede così scandita questa vita agra mentre una figlia incinta parte per la Svezia dove il non-marito l'attende e un gatto-pipistrello entra dalla finestra scendendo dal piano di sopra esasperato dalle urla di un ubriachetto. Tutto qua: perché il finale è prevedibile e non ve lo racconto e perché l'uomo che si inserisce nella vita di Gloria cerca di essere fisso ma non ci riesce, per volontà generali, e anche questo è un buon personaggio psicologicamente analizzato, e gl'impulsi sessuali di entrambi non c'infastidiscono.
Qualche sbadiglio in sala per una quasi assenza di trama ma anche molti sorrisi: «l'avranno fatta fumare davvero?» ci si domanda, perché la faccia dell'erba Gloria ce l'ha sul serio, quando trova un pacchetto e si mette comoda sul divano. «Avrà bevuto?» viene da chiedere a questi occhi spenti, mentre in giostra un'uomo le fa venire i brividi nell'unico modo con cui può riuscirci. Ma la consapevolezza, l'accettazione della propria solitudine è sempre dietro l'angolo: basta pensare ai lati positivi della tristezza e concedersi un ballo senza cavaliere.
Sebastián Lelio certo triste non lo sarà: l'ex-candidato all'Oscar per il Cile (Pablo Larraín) gli produce un film meraviglioso e meravigliosamente scritto che viene mandato nell'altra America in rappresentanza di uno stato che rischia di candidarsi per il secondo anno di fila dopo sedici film ignorati (ché il Cile è solo dal 1990 che concorre per gli Oscar) e un errore (non mandare La Nana nel 2009) – e giustamente dovrebbe vedere premiata la sua attrice, in una di quelle candidature estere che non fanno di solito la storia (ma che questa volta forse potrebbe).

i film stranieri.



I cinema sono proibiti in Arabia Saudita e i film si guardano in dvd o se passano in televisione; per cui è la prima volta nella storia che il Paese manda una pellicola in lizza per gli Oscar – e per di più è diretto da una donna (Haifaa Al-Mansour). Il film in questione, La Bicicletta Verde, oltre ai tre premi veneziani nel 2012 ha riscosso successi a Dubai, Vancouver, Sidney, Oslo, Los Angeles, ed è uno dei molti film di ritorno da grandi festival che aspirano alla nomination più importante dell'anno. Che sarà annunciata il 16 gennaio 2014, durante la lettura dei candidati agli 86esimi Academy Awards. Gli Oscar al Miglior Film Straniero, però, vengono sempre anticipati da una scrematura di nove titoli pubblicati circa otto giorni prima della data ufficiale, in cui le speranze vengono perse o rafforzate. Sono 76 quest'anno i film a gareggiare; Repubblica Ceca e Libano hanno all'ultimo momento cambiato idea sul film da spedire oltreoceano, mentre l'Italia ha grazie a Dio orientato la propria scelta sull'unico film che poteva avere speranze, La Grande Bellezza, tanto elogiato quanto criticato allo scorso Cannes dove Paolo Sorrentino è ormai di casa. Da Cannes ne arrivano altri 12, tra cui il Renoir che a sorpresa la Francia schiera senza grassi entusiasmi, dopo la disdetta (giustificata) del Quasi Amici dell'anno scorso, partito per essere uno dei Migliori Film in assoluto dopo la precedente vittoria di The Artist. Renoir, di Gilles Bourdos, biopic sulla vita del pittore analizzata al suo crepuscolo, odora di seconda scelta dietro alla Palma d'Oro La Vita Di Adele, ora nelle nostre sale e da troppo poco in Francia (9 ottobre), motivo per cui non ha potuto rappresentare lo Stato. Potrà farlo l'anno prossimo, ma già questa volta Adèle Exarchlopoulos e Léa Seydoux potrebbero ricevere la nomination per l'interpretazione femminile (e la prima lo meriterebbe come poche). Stessa sorte toccò l'anno scorso a Il Sospetto di Vinterberg, mandato quest'anno, e distribuito in Italia da BiM che si ritrova in sala due pellicole di questa lista, Il Passato del già Oscar Farhadi (Palma alla Béjo) e The Grandmaster di Wong Kar-Wai, di ritorno sul grande schermo dopo l'americano Un Bacio Romantico del 2007. È la prima volta anche per la Moldavia ed è la prima volta che il Montenegro spedisce un film come stato indipendente; rinunciano alla gara invece il Vietnam e la Macedonia.
Sussurri sull'alta probabilità nostrana di farcela almeno quest'anno e grida sulle possibili più grasse nominations per La Migliore Offerta di Tornatore (recitato in inglese). La Grande Bellezza uscirà negli Stati Uniti il 15 novembre distribuito da Criterion e Janus. La competizione più agguerrita: sicuramente il bel Gloria (altra formidabile attrice, Orso a Berlino), il tedesco Zwei Leben, la solita Polonia, appena applaudita a Venezia per Walesa di Andrzej Wajda, il romeno Child's Pose (Orso d'Oro al Miglior Film) e l'inglese Metro Manila, recitato però in tagalog, la più diffusa lingua delle Filippine.
Di seguito, tutti i titoli in corsa per la candidatura.

d'estate muoio un po'.




Monsters University
Regia: Dan Scanlon
Voto: 7.2/ 10

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La mala abitudine a cui ci ha indotto la Pixar (che ha ereditato dalla Disney) di aspettare con ansia e trepidazione la sempre estiva nuova uscita e cominciare ad elogiarne già dal trailer – dai poster – dai bozzetti le nuove frontiere della tecnologia (sono quintuplicati in questo film i peli di Sullivan rispetto al precedente), e la situazione di stallo della creatività americana, che dopo WALL•E e Up non poteva certo far meglio, ci fanno uscire dalla sala dicendo, sempre: «beh dai pensavo peggio». Perché: si tratta di un prequel, innanzitutto, e i sequel e i prequel e i remake si sa che non vengono mai col buco. Si tratta, poi, del film successivo a Brave, premio Oscar e tanta tecnica ma la più grassa delusione dell'industria digitale. Si tratta di un'uscita non contemporanea: era a giugno in America ed è arrivato a fine agosto da noi. Leggevamo quindi le recensioni anglofone che lo decretavano «easy». E easy è: Mulan trapiantata dall'Oriente a una mostropoli bislacca in cui cerca di trovare se stessa, donna e debole, nella maturazione militare a cui si costringe. Ma qui lo sforzo non si fa per salv(aguard)are un padre ancor più debole e malato; si fa coscienziosamente e consenzientemente per vocazione interna quasi religiosa: diventare un mostro tremendo e spaventosissimo con laurea dignitosa di facoltà. Al solito: l'apparenza inganna, il sé non è pienamente accettato, la costanza e la determinazione e l'impegno come in tutte le fiabe vengono sempre ripagati – e colpo di scena 1: non ripagati quanto crediamo. Il colpo di scena 2 è meno atteso: l'amico Sullivan non è tanto amico anzi è un personaggio orrendo e il buon caro Mike protagonista assoluto divide la stanza con un futuro nemico. E l'altra mala abitudine della Pixar è quella di sobbarcarsi metà film e non tutto, e lasciare l'altra metà alla Disney. E qui preferiamo la seconda, meno “easy” della prima, sicuramente più dignitosa di tutto Brave, staremo a vedere rispetto al tutto-disneyano Frozen dopo che Ralph Spaccatutto ha spaccato anche l'acerrima (con)correnza.


Che Strano Chiamarsi Federico
Regia: Ettore Scola
Voto: 5.5/ 10
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Comincia come se fosse un film: come se fosse un biopic che ricostruisce, con un attore incredibilmente somigliante non tanto di faccia quanto di vocina, l'arrivo del giovane Federico dalla Romagna alla Roma del Marc'Aurelio, giornale ad uscita sporadica di cui scopriamo i misteri della prima importantissima pagina e che contava le firme, tra gli altri, di Steno e poi dello stesso Scola. Ma dopo – con intermezzi narrativi di Vittorio Viviani, cantastorie ricalcato da Amarcord, intermezzi che sono l'unica perla del film per come vengono ignorati dai personaggi sul set (che vediamo) e non certo per quello che viene detto («il narratore non paga») – Scola non racconta più Fellini e Fellini non è più il giovane arrivato a Roma diventato quasi-ricco e quasi-famoso con le prime sceneggiature (e una nomination all'Oscar per Roma Città Aperta e il sodalizio con Rossellini di cui non viene fatto cenno) ma Scola racconta gli incontri di Scola e Fellini abbandonando la tecnica precedente, che occupa quasi metà film – troppo lunga, troppo cinematografica, troppo in contrasto con il resto; e dà il via a una serie di taglia/ incolla di scene felliniane e di repertorio per rendere in immagini le scampagnate in macchina che i due registi si concedevano, raccattando dalla strada i personaggi da baraccone che tanto amava(no). Sale quindi sul veicolo Wanda, nome in codice per chi conosce bene Cabiria, e questa rappresenta appieno il modo in cui vengono trattati i temi e le pellicole: chi già sa, coglie ma non aggiunge altro; chi non sa, non impara niente. E niente si impara né si coglie dalla «sapiente selezione di immagini dei più importanti film del Maestro», com'è stata definita la pacchiana sequenza finale, conclusione di un funerale per metà ricostruito (male) a voler sottolineare questa veste da Pinocchio che a Scola tanto piaceva. Insomma: non ci viene svelato un Fellini privato e quello che ci viene svelato non è neanche corretto (a partire dalla noncuranza delle recensioni sui giornali) né in sincrono, quando l'audio di certe interviste viene appiccicato a una nuca buia. Mi pare che gli elogi siano per il fatto che Scola sia vivo e non per il film in sé.


Sacro Gra
Regia: Gianfranco Rosi
Voto: 7.9/ 10
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Leone d'Oro italianissimo per la più italiana rassegna festivaliera che dal 1998 non si premiava (fu Gianni Amelio, con Così Ridevano, ad avere l'ultimo Miglior Film tricolore) sebbene qualche riconoscimento speciale e qualche Miglior Attore ci scappa sempre. Ma questa volta, un po' anche – e soprattutto – per il contenitore/ competizione un po' vuotino, si doveva fare. E dopo la grande bellezza, insomma, la grande bruttezza, trattata quasi con le stesse pinze. Non sono più i continui riferimenti all'ormai ingombrantemente onnipresente Fellini, ma un modo di raccontare le storie a metà tra il corale e l'onirico. Perché il documentarista Gianfranco Rosi, già passato da Venezia due volte e candidato anche a un European Film Awards, pare abbia lasciato la telecamera del documentario e in un modo che certuni trovano epifanico e certaltri un po' posticcio racconta un mosaico di storie che hanno in comune la localizzazione romanesca. Latinos che passano i pomeriggi a ballare in piazza, vicine di case popolari che ricordano le viste dalle finestre passate, coinquilini improbabili con due generazioni in mezzo e tanti cambiamenti di galateo, e poi il più assurdo protagonista, il cacciatore di insetti e larve letali per le palme che sull'autostrada si affacciano. Tra un frammento e l'altro, ora ripreso ora abbandonato a se stesso, le automobili fanno da sfondo a tutte le ore, i vetrini appannati, i cartelli stradali. Ma il raccordo non si vede mai, o meglio: non come ci aspetteremmo. Semplicemente è la colla tra questi personaggi che sembrano lontanissimi di nazionalità, epoche, persino a livello sessuale, eppure sono tutti in fila a formare un cerchio. Un film, insomma, che non proprio ci fa scattare in piedi ad applaudire; un esperimento che ha richiesto due anni di riprese e si inserisce in quella scatola di cinema ibrido di cui anche Cesare Deve Morire fa parte, che perde l'aspetto del documentario e lo riprende più per colpa degli attori che del regista, che, paradossalmente, fotografa la città di Roma nel modo opposto de La Grande Bellezza e ottiene quasi lo stesso risultato.