mercoledì 27 novembre 2013

31TFF: i misantropi.



Molière In Bicicletta

Alceste À Bicyclette, 2013, Francia, 104 minuti
Regia: Philippe Le Guay
Sceneggiatura originale: Philippe Le Guay & Fabrice Luchini
Cast: Fabrice Luchini, Lambert Wilson, Maya Sansa
Voto: 7.4/ 10
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«Un film leggero, una commedia intelligente» lo definisce Maya Sansa alla micro-presentazione per il pubblico, in prima serata all'inizio del Torino Film Fest; con lei ci sono il regista Philippe Le Guay, elegantissimo regista del fortunato Le Donne Del 6° Piano – che si scusa di non saper parlare l'italiano, dato che ricorda i tempi del cinema in cui gli italiani andavano a girare in terra francese e non si sapeva più definire Mastroianni francese o italiano – e l'attore co-protagonista, che l'italiano lo parla perfettamente, Lambert Wilson (anch'egli elegantissimo, più che con la chioma brizzolata), co-protagonista con Fabrice Luchini reduce da una serie di super-incassi: Le Donne andò benissimo e Nella Casa ancora meglio, e questo Alceste À Bicyclette ha incassato un milione in patria.
I due sono attori anche sullo schermo: uno, stella di una serie televisiva medico-avventurosa di cui scherza con chi ne capisce e si vanta con chi lo venera; l'altro si è praticamente ritirato dalle scene (scopriremo, poi, in che modo e con che forzatura) e ha ereditato una casa un po' dismessa in questa Île de Ré, cittadina francese in cui si gira solo in bici, e la bici non si lega ai pali. Vediamo subito, dalle condizioni della casa e dai problemi idraulici nel sottosuolo (e dalle tazze sbeccate), che se non fosse morto lo zio quella casa Serge non se la sarebbe potuta permettere: i prezzi non vanno sotto il milione. Eppure tutti vendono, inclusa l'italo-francese Sansa, che qui si chiama Francesca e ogni tanto litiga in lingua natia con l'ex marito al telefono. S'intrometterà in quella che è la trama allegorica del film: Gauthier che invita, quasi costringe, ammalia Serge con l'ipotesi di mettere in scena Il Misantropo di Molière. Ma la lite è dietro l'angolo: per la parte di Alceste o di Filinte?
Non è difficile capire il doppio senso della scelta teatrale, né la psicologia dei personaggi. Fabrice Luchini, amante di Molière al punto da non permettersi di metterlo in scena a teatro (né qui) e ideatore di questa trama, scava a fondo e ripropone due figure modellate su quelle rabbie represse e quei sentimenti. Due caratteri diversissimi, spesso incompatibili, che occupano completamente la scena e per tutto il tempo leggono i versi alessandrini originali. Mentre nelle nostre sale arriva In Solitario dei “creatori” di Quasi Amici è impossibile non paragonare quel successo a questo: a dimostrazione che una commedia può essere intelligente, istruttiva, non banale, e far sbellicare dal ridere. Certo non sveniamo dalla contentezza, ma siamo piacevolmente sorpresi, soprattutto per la satira che viene fatta della televisione, del recitare, dello scontro fra il teatro vecchio e quello nuovo (là era la ricchezza apparente contro la povertà genuina e simpatica, di cui già ci aveva parlato Topolino E Il Povero) e la nostalgia che le persone agée ne trarranno, l'avvento del nuovo, sempre meno profondo, sempre meno intellettuale, più impulsivo, più di pancia, che preferisce sostituire un vocabolo à-la-mode all'impronunciabile verso seicentesco. Il gioco delle parti è chiaro, e anche quello orgoglioso dei personaggi; nonostante ciò, pure la scena finale è in grado di sorprenderci, piacevolmente, dando ragione alla Sansa, che poveretta è relegata in un banalotto ruolo obbligato a rendere la commedia, come si dice, “romantica”.

martedì 26 novembre 2013

31TFF: Frances Ha.



Frances Ha
id., 2012, USA, 86 minutiRegia: Noah Baumbach
Sceneggiatura originale: Noah Baumbach & Greta Gerwig
Cast: Greta Gerwig, Mickey Summer, Michael Esper,
Adam Driver, Michael Zegen, Patrick Heusinger, Grace Gummer
Voto: 9.2/ 10
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«C'è una scena, di un film di Greta, in cui lei canta in un locale e nessuno la ascolta, tranne uno stregato Ben Stiller, che ha ispirato una sequenza del mio ultimo film» dice Paolo Virzì – penso sappiate quale sia il suo ultimo film – direttore del 31esimo festival di Torino e felice di esserlo (e accompagnato, il primo giorno, da Luciana Littizzetto); sotto braccio ha Greta Gerwig, con cui è entrato preceduto da suoni di trombe e un disordinato applauso. «Siamo tutti fan di Greta, che ha cominciato come scrittrice di copioni ed è adesso la musa del cinema indie: riesce ad essere sexy, goffa, ironica, spontanea, intelligente, ridicola – è la nuova Geena Rowland». La Gerwig arrossisce davanti a una sala che la adora, una sala che non la riconoscerebbe mai per strada, data la metamorfosi (capelli lunghi e poco mossi, vestito nero). Racconta che per Frances Ha ha impiegato un anno a scrivere la sceneggiatura con Noah Bumbach e un altro anno a girarlo (i due avevano già collaborato per Lo Stravagante Mondo Di Greenberg e lui è il regista dello splendido Il Calamaro E La Balena). «È stupido parlare di un film davanti a una sala che non l'ha ancora visto» dice saggiamente, «ma spero che vi divertiate».
E il divertimento arriva poco dopo: la gente si sganascia, a volte più di quanto dovrebbe. Ma il film – in un bianco e nero a cui «poi ci si abitua» – spinge a farlo, in un montaggio entusiasta, frizzante, ritmato, che scandisce un tempo che scorre senza peso. È un enorme, nostalgico tributo al cinema francese di Truffaut, chiaro dalle veloci immagini sul prato, le corse per strada, i pantaloni neri fino al ginocchio sotto la gonna, la trama (neo)realistica.
Frances è un'aspirante ballerina di danza moderna, ventisettenne, nata e cresciuta a Sacramento e trasferita a New York. Vive con Sophie, con cui vediamo, all'inizio, porta avanti un'amicizia-matrimonio di intese e spensieratezze, lotte al parco e film sul computer nel letto alla sera. Nella danza Frances crede molto, ma pare che l'amore non sia reciproco; si aggiunge il trasferimento di Sophie in una casa a Tribeca, ma le cose dei ragazzi vanno così, e per amici comuni Frances finisce nella «stanza piccola» di un appartamento «sicuro di sé» in cui vive l'Adam Driver di Girls. Altro idillio: lei e Lev e Benji che saltano sul letto, mangiano cinese davanti alla tv (e Lev porta a casa one-night-stands che preparano i bagel). «Non posso restare a colazione, devo uscire, non sto combinando niente» dice Frances con la giacca addosso; e poi a colazione ci resta. I soldi sono sempre meno e la casa sempre più cara e l'amica più lontana e le vacanze di Natale arrivano: va a trovare i suoi, fa la pulizia dei denti, la rimpatriata di quegli amici... Tutto è così talmente realistico che è impossibile non immedesimarsi prima in lei poi in qualcun altro: la paura di crescere, la difficoltà di farcela da soli, il contrasto tra i ricchi e i poveri, la solitudine che piomba dietro l'angolo, le vacanze che vanno male, i ritorni degli affetti, le relazioni che diventano serie – tutto che diventa serio. È un film “newyorkese” l'ha definito Virzì, ma è in realtà un film universale, forse per una fetta di gioventù. Nel cast tutto indie, poi, ogni personaggio è azzeccato: l'amaro in bocca resta solo per la psicologia ambigua di Frances: intelligente e spigliata, con la battuta pronta, ma poi capace di intavolare conversazioni imbarazzanti e inutili alle cene con gli sconosciuti. Autrice di un pensiero meraviglioso su cos'è lo stare in coppia e poi dispettosa verso se stessa nel non accettare un lavoro nel momento di bisogno. Ad ogni modo, tutti i difetti si nascondono dietro l'etichetta della casella postale, quando ci verrà svelato il perché di questo titolo, Ha.

giovedì 21 novembre 2013

sposare una lontra.



Venere In Pelliccia
La Vénus À La Fourrure, 2013, Francia/ Polonia, 96 minuti
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura non originale: David Ives & Roman Polanski
Basata sulla pièce teatrale di David Ives
Cast: Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
Voto: 8/ 10
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Le Variazioni di Von Trier ci insegnarono che più restrizioni si hanno, miglior parto avrà il nostro prodotto: i limiti e i vincoli fanno sforzare l'ingegno. E così ha dovuto fare il segregato-in-Polonia Roman Polanski (che però al Festival di Cannes c'era, insieme ai suoi due attori e al suo film in concorso). Una comitiva piccola piccola perché il film due attori soltanto ha, e soltanto una location: un teatro addobbato coi cacti fallici di Ombre Rosse adattato a musical belga. Non potendo tornare al cinema internazionale e en-plain-aire, Polanski è da un paio d'anni che si scrive a pennello sceneggiature claustrofobiche tutte al chiuso: aveva così esagerato con L'uomo Nell'ombra (aka The Ghostwriter) tra isolotti aeroplani traghetti e spiagge, con cui fu applauditissimo a Berlino, che il successivo Carnage l'aveva fatto durare un'ora e l'aveva fatto iniziare e finire in un appartamento. Epopea di bravura per quattro bravissimi attori, fu la perla di Venezia 66 che riportò in auge lo spettacolo Il Dio Del Massacro repentinamente pubblicato da Adelphi. A due anni da quel film, il regista franco-polacco torna a un festival e torna a collaborare con uno sceneggiatore teatrale, il sessantatreenne David Ives che nel 2010 portò sul palco (nel 2011 a Broadway) lo spettacolo Venus In Fur che richiamava alla memoria il romanzo Venus Im Pelz dell'austriaco Leopold von Sacher-Masoch (1870) che scandalizzò il mondo e diede neologia al termine “masochismo” oltre che ispirazione, tra gli altri, al fumetto omonimo di Crepax negli anni '80.
Da questo calderone di arti, il duo di scrittori prende ogni tassello di puzzle e lo monta in un botta-e-risposta labirintico; Mathieu Amalric ed Emmanuelle Seigner si ritrovano dopo Lo Scafandro E La Farfalla e si trovano nel teatro di cui prima, lui regista e adattatore della pièce e lei attricetta spiantata giunta in ritardo alle audizioni per il ruolo di protagonista di questo Venere In Pelliccia, spettacolo a partire dal romanzo di due secoli fa. Da subito, dal completo di pelle e dalla parlata sboccata, capiamo che per questa donna non ci sono chance, che il regista non è e non sarà interessato, lei a malapena ha letto il copione, è convinta che il libro di partenza sia un porno, che gli attori dovranno indossare collari e borchie. Ma poi dalla sua borsa di Mary Poppins tira fuori un pacchiano abito giusto, una giacca miracolosa, raccoglie i capelli e la Wanda von Dunayev di cui c'è bisogno è lei. Entra ed esce dal personaggio e si fa dare le battute dall'incantato Amalric di cui intuiamo l'autobiografismo nel testo, così come dell'austriaco fu per il romanzo. Da una scena saltano all'altra analizzando personaggi e posizioni sul palco, e la Wanda che si chiama veramente Wanda ci sorprende sempre correggendo una luce, intuendo una sottigliezza psicologica – chi è veramente questa donna?, cosa è venuta a fare?
Usciamo dalla sala con ancora queste domande in testa, a bocca amara per la scena conclusiva, musicata magnificamente (come ogni altra scena) da Alexandre Desplat, tribalmente un po' eccessiva, che ci sottolinea come il regista si sia preso gioco di noi, ingannandoci con il trucco delle parti, con un autore in cerca di personaggio e un personaggio in cerca di due corpi. Magistralmente i ruoli si invertono e capovolgono continuamente, al punto che si necessita l'ordine fornito in apertura: dove comincia il libro e dove la pièce e dove il film. La Seigner è maestosa, magistrale, totalmente disposta a mettersi a nudo e in grado di assumere varie forme – lei è l'attrice che il maestro plasma; e il maestro non è qui Amalric (sempre bravo, per carità), ma Polanski, che dopo averci snervato (nel senso buono, per carità) con Carnage, adesso ci spiazza nel labirinto della psiche umana.

lunedì 11 novembre 2013

European Film Awards - nominations.



Il 7 dicembre 2013 saranno consegnati, a Berlino, i 26esimi European Film Awards, premi che il cinema europeo dà al cinema europeo – e forse mai la cerimonia si è prefigurata così italiana come quest'anno. Certo abbiamo da sconfiggere il favorito The Broken Circle Breakdown di Felix van Groeningen, pellicola belga spedita agli Oscar con le 5 nominations più importanti (Film, Regia, Sceneggiatura, Attore, Attrice) e la Palma d'Oro La Vita Di Adèle, che a sorpresa non vede in lizza nessuna delle sue due immense attrici (gareggia per il Film e la Regia); ma abbiamo, dalla nostra, ben cinque film spalmati in tutte le categorie: La Grande Bellezza di Sorrentino (Film, Regia, Attore, Sceneggiatura) e già vincitore annunciato del miglior Montaggio – di Cristiano Travaglioli; La Migliore Offerta di Tornatore (Film, Regia, Sceneggiatura) con cui Ennio Morricone ha già vinto la Colonna Sonora; Miele della Golino è tra le promesse europee, a sorpresa Benvenuto Presidente! tra le migliori commedie e il Pinocchio di Enzo D'Alò fra i tre migliori film d'animazione. Altri grandi concorrenti saranno lo spagnolo Blancanieves, inviato agli Oscar lo scorso anno senza successo e vincitore già di 10 Goya (candidato al Film e alla Regia) e Nella Casa di Ozon (Film, Attore). Profumano di superfluo le candidature agli attori di Anna Karenina (per quanto il film sia un sottovalutato capolavoro che ho elogiato) e di meritata commozione i premi alle carriere di Catherine Deneuve e Pedro Almodóvar, il cui Gli Amanti Passeggeri è tra le migliori commedie insieme al tremendo Love Is All You Need.
Di seguito, dopo il salto, tutti i candidati e i vincitori già annunciati.

prima che finisca.



Before Midnight
id., 2013, USA, 109 minuti
Regia: Richard Linklater
Sceneggiatura originale: Richard Linklater, Ethan Hawke, Julie Delpy
Basata sui personaggi di Richard Linklater & Kim Krizan
Cast: Ethan Hawke, Julie Delpy, Seamus Davey-Fitzpatrick,
Jennifer Prior, Charlotte Prior
Voto: 7.7/ 10
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1995: giovani e intraprendenti, Jesse e Celine si trovano per caso nello stesso vagone di un treno che fermerà a Vienna, poi si ritrovano sullo stesso gruppo di sedili nel vagone; finiranno per parlare, ed è inutile raccontarlo se state leggendo questa recensione e sapete di che film stiamo discernendo, decideranno di non salire sulle rispettive imminenti coincidenze ma di starsene in giro per la capitale a parlare ancora e dividersi solo – come diceva quel titolo – prima dell'alba.
2004: Jesse è a Parigi, in una piccola libreria, a presentare il suo primo romanzo, primo in classifica negli Stati Uniti e adesso tradotto in Europa. Il libro, si capisce dalle domande dei giornalisti, parla di due che s'incontrano in treno e passano la notte in giro a parlare. Quello che il libro omette è che i due, nell'estate del '95, s'erano detti di ripresentarsi a dicembre sullo stesso binario dello stesso treno, per vedere come sarebbe andata la seconda volta. Capiamo, a nove anni di distanza, che l'incontro quell'inverno non è avvenuto. E Celine è in un angolo della libreria ad aspettare che la presentazione finisca e chiacchierare con Jesse per la seconda volta in dieci anni, prima che lui prenda l'aereo per tornare in America dalla moglie e dal figlio, prima – come diceva quell'altro titolo – del tramonto. Ed era stato, quel film del '95, il film più corto e di maggior successo: fu candidato all'Oscar per la sceneggiatura ed ebbe critiche di elogi e inchini. Giustamente: perché quello era il film che più di tutti s'immergeva nella situazione e rendeva un pomeriggio tra due estranei che hanno molta affinità: lei spontaneamente gli parlava di tutto e lui la guardava con gli occhi dell'amore; si dicevano, quella volta, cose che due persone sposate non si direbbero più – perché ormai si conoscono.
Ed è per questo che ora, che siamo nel 2013, ora che Jesse e Celine stanno insieme e hanno due gemelle, i loro discorsi sembrano apparentemente meno potenti, meno realistici. Come meno potente sembra il film: sono in vacanza in Grecia, ospiti di alcuni amici; tutto quello che sappiamo lo capiamo come sempre dai discorsi, a volte un po' forzati. Di ritorno dall'aereoporto, in un lungo tragitto in macchina, ecco le scene a cui eravamo abituati, discorsi a due a telecamera fissa. L'incanto si interrompe con un bagno al mare, con un pranzo di coppie, dibattiti sui maschi e sulle femmine, sulle relazioni e i sentimenti. Ciò che da ormai diciotto anni (diciotto anni!) vediamo a ritmo cadenzato, arriva ora: un altro tragitto insieme, e una stanza in albergo prenotata, e una lite furibonda e lamentele, rimpianti, accuse vengono a galla perché le giovinezze ormai perdute sono sfociate in routine quotidiane malinconiche. Non si parla più degli ideali, dei sogni per il futuro, ma – giustamente – dei ruoli in casa e soprattutto di ciò che il film coerentemente scava: la difficoltà per una coppia nata nomade di trovare un terreno in cui attecchire, un lavoro a Parigi e un figlio a Chicago e la non-appartenenza a nessuna delle due terre.
Richard Linklater non è mica stato fermo, in questi diciotto anni (diciotto anni!); ha diretto Jack Black in Bernie ultimamente e prima in School Of Rock, ha fatto parlare dei mali del McDonald's in Fast Food Nation e del Mercury Theatre in Me & Orson Welles, ha usato tecniche di animazione digitali in Un Oscuro Scrutare e ha ricambiato il favore a Ethan Hawke recitando nel suo film da regista L'amore Giovane. Ma è con questa ormai conclusa trilogia che riesce a portare a galla un cinema fatto di cose semplici: una città d'Europa e una coppia che si sfiora senza toccarsi – merito soprattutto dei suoi due attori, più spontanei possibile nella recitazione (soprattutto Julie Delpy) ma anche ottimi sceneggiatori/ improvvisatori.
Si esce dal cinema sorridendo di nostalgia.

venerdì 8 novembre 2013

videogioco di guerra.



Ender's Game
id., 2013, USA, 114 minuti
Regia: Gavin Hood
Sceneggiatura non originale: Gavin Hood
Basata sul romanzo di Orson Scott Card
Cast: Asa Butterfield, Harrison Ford, Viola Davis, Hailee Steinfeld,
Ben Kingsley, Abigail Breslin, Aramis Knight, Suraj Partha
Voto: 6.9/ 10
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A poco più di trentacinque anni dalle Guerre Stellari, Harrison Ford rimette piede su un'astronave per andare a sconfiggere un pianeta nero-morte che minaccia di farci fuori tutti. Siamo, ancora, in un futuro più o meno prossimo, in cui l'addestramento militare si fa senza gravità e le brande sono disposte in stanze munite di nome/ animale in cui sono ammesse anche le ragazze. È, questo, un futuro in cui l'uomo si accorge che il bambino cresce a videogiochi e simulazione, con tablet durante la pausa pranzo e giochi quasi di-ruolo coi propri compagni. Il bullismo scaturisce dalla strategia sbagliata e la violenza fisica convive con quelle psicologica e ludica. A partire da ciò, si può accettare che un pischello di quindici anni circa venga messo al comando di una piattaforma galattica intera di cui è forse il più giovane, per dirigere una guerra che o li vedrà quasi tutti vincitori o completamente tutti morti. Follia pura, ma il film – che è un film come tanti, un Hunger Game in orbita e non nel bosco, un romanzo della formazione di un carnefice buono – è in realtà un videogioco che teorizza la guerra, che strizza l'occhietto alla trattazione pacifica, ma l'Adulto gioca d'impulso perché assetato di vittoria e non permette che l'ingenuo Bambino patteggi col nemico che non parla la sua lingua. Il videogioco, che non a caso è anche nel titolo, entra nella pellicola anche come realtà aumentata, e ci mostra un'Abigail Breslin animata, cresciuta e con un accenno di seno: e pensare che l'avevamo quasi lasciata a trafugare un trofeo dopo aver perso la corona di Little Miss Sunshine. Troppo poco spazio le viene dato, candidata all'Oscar a nove anni – e troppo poco a Viola Davis, candidata all'Oscar per nove minuti, che qui rappresenta la psicologa o antropologa in grado di decifrare i comportamenti di questi ragazzi, del protagonista in particolare. I turbamenti del giovane Ender scaturiscono da una crescita fatta di frustrazione per essere il terzo figlio (ne traiamo come conseguenza che a ogni famiglia spettano massimo due pargoli) e di cattiveria non troppo repressa a causa di un fratello sempre nervoso. Ender è però personaggio particolare, indecifrabile, «sempre alla ricerca di affetto» e «in conflitto con l'autorità». Risponde male ma è educato, parla alle masse ma mangia da solo. A scrivergli le battute (e le patetiche scene di vittoria antigravitazionale e di confessione in zattera con la sorella) è il regista Gavin Hood – Oscar al film straniero Tsotsi nel 2005, direttore di un cast stellare nel 2007 (il film era Rendition) e campione d'incassi nel 2009 con il film su Wolverine degli X-Men – mentre a interpretarlo è Hugo Cabret Asa Butterfield che né ha sviluppato in altezza né ha preso peso. Oltre che a Star Wars (di cui si percepisce la trama, il grottesco di certi personaggi, il giovane capace al comando e la Morte Nera da sconfiggere), il film deve molto a certe trovate scenografiche di 2001: capisaldi del cinema nello spazio, impossibili da non ricordare davanti a certi lunghi corridoi o al vassoio del pranzo fatto a scomparti. Ma c'è qualcosa, del film, che non quadra. Oltre ai tatuaggi maori sulla faccia di Ben Kingsley. Ed è la confezione del film in sé, che non ci dà assolutamente niente di nuovo rispetto a quello che siamo abituati a vedere, non ci sorprende né ci commuove né ci emoziona – e pare, ancora una volta, che sia stato fatto come pretesto per mettere su schermo giganteschi effetti speciali che hanno fatto incassare, al momento, 32 milioni di dollari in America (il film però è costato 110).

martedì 5 novembre 2013

Roma Film Fest 2013 - concorso.



Si svolgerà dall'8 al 17 novembre l'ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, per la seconda volta diretta dall'ex-veneziano Marco Müller che al Lido compì miracoli – soprattutto in chiusura di mandato – e che nella capitale si ritrova le solite polemiche di finanziamento e di identità («a differenza degli altri festival, quello di Roma non ha dei connotati propri»).
Per la prima volta ci saranno due madrine: Sabrina Ferilli, appena uscita dal successo de La Grande Bellezza, film-elogio della Città Eterna, aprirà le proiezioni questo venerdì sera – mentre Anna Foglietta condurrà la cerimonia di premiazione.
In giuria compare, unico italiano, il regista di Melissa P. che poi ha battuto la testa e ha emulato Visconti Luca Guadagnino, apprezzato in tutto il mondo per Io Sono L'amore; con lui al tavolo si sederanno la regista argentina Verónica Chen, l'attore russo Aleksei Guskov reduce dal ruolo di Giovanni Paolo II nel film italiano Era Santo, Era Uomo, la regista, sceneggiatrice e attrice francese di Camille Redouble Noémie Lvovsky, il regista iraniano Amir Naderi (Cut) e il regista cinese Zhang Yuan (La Guerra Dei Fiori Rossi). Presidente di giuria, James Gray, regista americano dell'appena presentato a Cannes The Immigrant oltre che di Two Lovers e I Padroni Della Notte. La sezione Cinema XXI sarà presieduta invece dal vincitore dell'anno scorso (con Marfa Girl) Larry Clark.
Premio postumo alla Carriera per il cineasta russo Aleksej Jurevic German, primo caso di festival europeo che celebra un regista defunto (riceverà il premio la moglie Svetlana Karmalita e sceneggiatrice dei suoi film). Cinque pellicole in cinquant'anni, l'ultima, È Difficile Essere Un Dio, sarà proiettata alla fine della cerimonia di consegna: epopea fantascientifica filosofica dal romanzo dei fratelli Strugatski.
In concorso troviamo l'italiano Mirko Locatelli autore di cui parlammo anni fa che dopo il minuscolo Come Prima (mediometraggio sulla disabilità che ha colpito anche il regista) e il piccolo Il Primo Giorno D'inverno passato di sfuggita a Venezia (storia carica di simboli di un ragazzo silenzioso e della sua rabbia omofobica) si ritrova in gara con I Corpi Estranei, scritto ancora con Giuditta Tarantelli e interpretato da Filippo Timi; altro italiano è il Take Five di Guido Lombardi, ex esordiente con Là-Bas, che ritorna sui toni criminali spostandosi nella grande bellezza di Napoli da riscoprire, tra le fogne e l'acquedotto sotto la città, in cui la banda dei cinque del titolo si sposta per raggiungere le banche. Sempre in concorso c'è il Dallas Buyers Club già celebrato all'Hollywood Film Fest per la coppia Matthew McConaughey e Jared Leto – il primo meccanico ammalato di AIDS e il secondo trans al seguito. Spike Jonze torna dopo quattro anni dalle Creature Selvagge con il quarto lungometraggio da regista (Essere John Malkovich, Il Ladro Di Orchidee) e ripropone la coppia sullo schermo Joaquin Phoenix-Amy Adams in un'ambientazione leggermente futuristica in cui un sistema operativo di nome Samantha (voce di Scarlett Johansson) soddisfa tutti i bisogni di chi l'acquista. Ultimo film di cui parliamo è Out Of The Furnace dell'attore Scott Cooper, regista nel 2009 di Crazy Heart con cui vinse l'Oscar Jeff Bridges; Christian Bale appena uscito di prigione pensa al matrimonio con la fidanzata Zoe Saldana prima di scoprire che suo fratello è stato ucciso; nel cast anche Woody Harrelson, Willem Dafoe, Forest Whitaker e Casey Affleck.
Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i film in concorso all'ottavo Festival del Cinema di Roma.

lunedì 4 novembre 2013

i labirinti.



Prisoners
id., 2013, USA, 153 minuti
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura originale: Aaron Guzikowski
Cast: Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Viola Davis, Terrence Howard,
Maria Bello, Paul Dano, Melissa Leo, Dylan Minette, Zoe Borde,
Erin Gerasimovich, Kyla Drew Simmons
Voto: 8/ 10
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I candidati all'Oscar Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Viola Davis, Terrence Howard e la candidata al Golden Globe Maria Bello si preparano a sfilare verso tutte le imminenti cerimonie di premiazione capitanati dalla vincitrice dell'Oscar Melissa Leo (per The Fighter, ma più brava nel piccolo Frozen River – elogiata in Mildred Pierce e qui irriconoscibile) a sua volta capitanata dal regista di questo film, di questo filmone, di questo thriller compatto e straripante come un fiume in piena – Denis Villeneuve, anche lui passato di sfuggita dal Kodak Theatre per il precedente Incendies (in italiano: La Donna Che Canta), altro drammone a metà tra la saga familiare e la tragedia nel passato.
Qui il passato non porta (quasi) nessun male, perché si svolge tutto al presente: durante la sacrosanta giornata del Ringraziamento due famiglie speculari di madre-padre-figlio piccolo-figlio grande (ma una bianca e una nera) si riuniscono per tagliare il tacchino e cantare dopo un bicchiere di troppo mentre fuori la nebbia porta alla pioggia. Le figlie minori sono alla ricerca di un fischietto rosso, e ottengono il permesso di potersi spostare nell'altra dimora a far le esploratrici, e dopo qualche ora di entrambe s'è persa traccia. Parcheggiata sul marciapiedi c'è una roulotte apparentemente dismessa da cui esce però della musica: la polizia ci troverà dentro anche il solito Paul Dano col cervello di un dodicenne a metà tra il colpevole e l'innocuo. Liberato perché privo di accuse, farà traboccare la pazienza delle due famiglie che dopo un giorno ancora non rivedono le loro figlie. Le ore sono scandite con la pesantezza di ciò che potrebbe essere successo, continuamente viene sottolineato da quant'è che queste infante sono scomparse da casa – ed è il tratto, forse, più realistico del film e di solito meno utilizzato, insieme alla depressione di una delle due madri, tutta letto e farmaci, e alla follia del padre che si fa giustizia da solo. Hugh Jackman sarà ri-nominato all'Oscar perché sfocia, qua, nel più ostico e difficile (per lo spettatore) personaggio, continuamente ambiguo, in combutta con un attempato Jake Gyllenhaal dal capello ballerino e dal tic nervoso. Il film è tutto su loro due: che si inseguono, si accasciano, s'illuminano. Molte sono le piste sbagliate per entrambi, molti sono i casi in città di maniaci e folli conservatori di serprenti. Anche noi alla fine non sappiamo più a chi credere, cosa credere, e poi arriva il colpo di scena. Con un finale che rende giustizia alla tensione e al contenitore di realismo. Troppo poco spazio, purtroppo, agli interpreti secondari: Viola Davis ci piace sempre tantissimo, anche quando tace ed è di spalle; Terrence Howard si dimostra bravo anche nelle parti drammatiche; Maria Bello è stata ingiustamente messa nel dimenticatoio da un po'; e il buon Dano lo vediamo sì e no in tre scene quando ha un physique-du-rôle mai così azzeccato.
Il tutto è scritto dal quasi esordiente Aaron Guzikowski, sceneggiatore dell'indifferente Contraband e creatore di un ghetto-drama previsto per il 2014. Il miracolo sta nella costruzione di un thriller giallo né poliziesco né banale nel suo consumarsi finendo, che parte dall'archetipo del labirinto sia per raccontarsi che per confonderci – che sta giustamente riscuotendo già successi di botteghino e festival, soprattutto per i suoi attori. A Toronto è appena stato classificato terzo dietro Philomena di Stephen Frears e l'atteso capolavoro 12 Years A Slave di Steve McQueen.