sabato 22 febbraio 2014

MPSE Golden Reel Awards - vincitori.




L'associazione dei Motion Picture Sound Editors ha consegnato i Golden Reel Awards qualche giorno fa, durante la 61esima cerimonia di premiazione che ha visto la presenza dei tecnici del suono dei maggiori film dell'anno e dei migliori studenti delle scuole di mixaggio e montaggio audio americane; i premi spaziano dal cinema alla televisione ai videogiochi e qui potete trovare l'elenco intero dei candidati e dei vincitori; di seguito invece i lungometraggi: Gravity ottiene il premio forse maggiore, agli effetti sonori e al rumore (nella foto: Danny Freemantle e Ben Barker, i tecnici premiati); ma è di Captain Phillips il riconoscimento al sonoro nei dialoghi – forse anche perché il film precedente vede solo un personaggio. Epic batte la Pixar di Monsters University e di Frozen per il versante animato, ma quest'ultimo ottiene il premio al film musicale, mentre il miglior montaggio sonoro straniero è del cinese The Grandmaster di Wong Kar-wai, in corsa per gli Oscar artistici. L'altra categoria non di finzione, quella dei documentari, è vinta dal giornalistico Dirty Wars, che ha la meglio sul musichevole 20 Feet From Stardom forse più prevedibilmente vincitore. Anche Il Grande Gatsby racimola qualcosa, come ormai fa sempre, ed è il giusto riconoscimento al connubio di dialoghi ed effetti con la musica – e che musica!, e quanta musica!
Dopo l'interruzione tutti i candidati e i vincitori.

miglior montaggio sonoro -
effetti in un film
(a lingua inglese)
12 Anni Schiavo
All Is Lost - Tutto È Perduto
Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Fast & Furious 6
 Gravity 

Lo Hobbit: La Desolazione Di Smaug
Iron Man 3
Lone Survivor

miglior montaggio sonoro -
dialoghi e presa diretta in un film
(a lingua inglese)
12 Anni Schiavo
American Hustle - L'apparenza Inganna
I Segreti Di Osage County
 Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto 

Gravity
Her
A Proposito Di Davis
Lone Survivor

uni-kitty.



The Lego Movie
id., 2014, USA/ Australia, 100 minuti
Regia: Phil Lord & Christopher Miller
Sceneggiatura originale: Phil Lord, Christopher Miller, Dan Hageman e Kevin Hageman
Voci originali: Chris Pratt, Will Ferrell, Elizabeth Banks, Will Forte,
Alison Brie, Will Arnett, Nick Offerman, Morgan Freeman
Voci italiane: Massimo Triggiani, Pino Insegno, Barbara De Bortoli, Raffaele Palmieri,
Valentina Mari, Claudio Santamaria, Edoardo Stoppacciaro, Pietro Biondi
Voto: 7.5/ 10
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In principio fu una profezia in rima, quando al barbuto vecchio stregone Vitruvius col bastone viene rubato il Kragle, misterioso e potente strumento d'eliminazione capace di fare ogni male; tale profezia conta una normale figura umanoide dei Lego del futuro, giallo in faccia e operaio costruttore, che salverà tutte le genti col suo essere speciale. Il suddetto omino presumiamo sia Emmett Brickowski, che si sveglia e segue le istruzioni, saluta la ridente cittadina di mattoncini e segue le istruzioni, segue le istruzioni per tutto e si sganascia con Dove Sono I Miei Pantaloni in televisione dopo che il sindaco e proprietario del mondo Business ha minacciato la morte ai disertori. La felicità perpetua di Emmett è ingiustificata: è stupido, è solo, considerato strano dai colleghi del cantiere. Per cinque ore potrebbe cantare È Meraviglioso come le istruzioni gli impongono. Doppia morale: le pecore e il pastore, e le pecore tra di loro scalciano. Intravede una bella darkettona tra le macerie, che cerca un pezzo che tutti vorrebbero: Emmett finirà per trovarlo e, involontariamente, appiccicarselo sulla schiena. Canguro al contrario, diventerà “quello speciale” chiamato a salvare il mondo – la minaccia del sindaco dittatore è ormai annunciata, tutti i mondi (il west, lo spazio...) saranno rasi al suolo. Gli verranno in aiuto: Batman, una commistione di Hello Kitty e un unicorno, un Lego degli anni '80 in fissa con le astronavi, un pirata ricostruitosi su vari pezzi (uno squalo incluso); e compariranno: Cleopatra, Michelangelo (il pittore e scultore), Michelangelo (la tartaruga ninja), Abramo Lincoln, Superman, Lanterna Verde, Gandalf, Han Solo.
Il gigantesco pregio del film è che fa sganasciare dal ridere: giocando sui cliché dei personaggi che ri-usa, sul materiale stesso, sui riferimenti alla comicità demenziale, non fa mai smettere agli angoli della bocca di salire, anche quando il tono s'allenta – e succede spesso. Pare ci siano dei problemi irrisolti, o delle situazioni arrabbattate: si attraversano spazi temporali, tunnel trasportatori, si passa da un mondo all'altro e si arriva, infine, alla svolta non completamente inaspettata in cui la morale di cui prima si capovolge e s'annulla. Non più l'uomo qualunque non-speciale che trova la sua specialità nell'esistere e nell'essere comune pecora privata del pastore, ligio alle regole e parte di una catena di montaggio, ma rapporto padre-figlio, regole del gioco, confusione tra priorità sentimentali.
Conclusione completamente bocciata, in cui però si svela il trucco del mestiere: il film è stato girato per il 50% in stop-motion e per il 50 in digitale. Ogni pezzo è vero ma successivamente animato, e soprattutto: tutto è di Lego: le esplosioni, di Lego: il mare, di Lego: le fiamme, di Lego. I volti dei personaggi si muovono a scatti per seguire la finta intermittenza del passo uno, e le continue scene d'azione, di corsa, le panoramiche infinite sono una chicca per gli occhi, un desiderio di (ri)possedere tutti quei mattoncini dell'infanzia.
Registi di Piovono Polpette e 21 Jump StreetPhil Lord e Christopher Miller tornano all'animazione e lo fanno col botto, incassando quasi 70 milioni di dollari al primo fine-settimana in patria e circondandosi di attori che prestano le loro voci ai più disparati personaggi: Will Forte è Lincoln, Jonah Hill è Lanterna Verde, Morgan Freeman Vitruvius, Elizabeth Banks la co-protagonista Lucy. In complesso un buon risultato, con una bella chiusura e degli splendidi titoli di coda, ma imperfetto, quasi incompleto.

mercoledì 19 febbraio 2014

i peperoni erano piccoli.



The Square - Inside The Revolution
Al Midan, 2013, Egitto/ USA, 108 minuti
Regia: Jehane Noujaim
Cast: Khalid Abdalla, Dina Abdullah, Dina Amer,
Ahmed Hassan, Ramy Essam, Ragia Omran
Voto: 7.6/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
documentario
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Premiata dal pubblico al Sundance 2013 e miglior regista di un documentario ai DGA di quest'anno, a cui era già stata candidata nel 2005 per Control Room, inchiesta su ciò che la televisione islamica cela e quella americana rivela, Jehane Noujaim tenta l'impossibile e scende in strada a gennaio 2011 con i suoi cameraman per documentare le fasi della rivolta che abbatterà, in tre anni, tre regimi. Lei non sapeva che ci sarebbe rimasta, e tornata, per tre anni: ricevendo il premio al Sundance ha saputo che nuove manifestazioni erano scoppiate nella sua terra natia e si è precipitata per riprendere le vicende 2013. Quello che uscirà in pochissime sale questo giovedì, grazie ad Unipol e La Feltrinelli, non è il documentario passato dal festival; è più lungo, e raggiunge le elezioni dell'anno scorso. Lo fa servendosi di un gruppo di personaggi che segue minuziosamente e che incarnano il fervore e la filosofia della protesta: Ahmed Hassan, giovane infervorato leader dei rivoltosi buoni, colui che forse più di tutti riassume l'approccio al cambiamento; l'attore de Il Cacciatore Di Aquiloni Khalid Abdalla, nato in Inghilterra e tornato in Egitto per la causa, con la funzione di mediatore tra il popolo urlante e le televisioni, soprattutto – anzi, esclusivamente – estere; e poi un adepto della fazione opposta, la Fratellanza Mussulmana, e ancora l'avvocatessa dei Diritti Umani. In tutto ciò, dal gennaio di tre anni fa, piazza Tahrir nel centro del Cairo è diventata il simbolo dell'opposizione alla politica, e da qui il titolo del film. Scesi in strada per ribellarsi ai trent'anni di perenne stato d'allarme della dittatura fascista di Mubarak, costretto poi a dimettersi, questi ed altri personaggi sono tornati a protestare per le ingiuste e corrotte elezioni del 2012 vinte da Morsi, che si è riconosciuto poteri illimitati con i quali giustifica le risposte violente. «Abbiamo fatto cadere il primo regime, abbiamo fatto cadere il secondo, aspettiamo di far cadere l'altro» dice Ahmed, «ormai il nostro posto è qui». In piazza, ma sempre in pace. Nessuno di loro ha una pietra, nessuno un'arma. Gli unici attacchi sono verbali, privi di insulti: rimproveri ai Fratelli Mussulmani di aver stretto la mano ai militari che hanno investito i ragazzi al sit-in coi carri armati. E le poche volte che l'esercito compare sullo schermo, in interviste o colloqui privati, sentiamo dire cose tipo «il proiettile che ha colpito i morti non è dell'esercito, non ci assomiglia per niente», oppure «un giorno mi ringrazierai per aver salvato questo Paese». La Noujaim non fa il gioco di Joshua Oppenheimer, di focalizzarsi sui “cattivi” e far parlare solo loro, per indignare lo spettatore che prende posizione; certo, qui una posizione viene palesemente presa – da lei e da noi, ma il raggio d'ascolto è più ampio, le figure parlanti sono di più e appartenenti a più fazioni. Dopo tre anni dall'inizio delle rivolte, dei primi sit-in fatti di cibo condiviso, di canti e balli, di slogan ripetuti in coro, il sangue ha macchiato troppe strade per tornare a quel clima, ma l'Egitto ha conquistato una cosa che prima non aveva: l'unità. Per cui qualsiasi tipo di ideologia si unisce alle altre per l'obiettivo comune, e il documentario ha il potere (immenso) di far unire anche noi, desiderosi di salire su un aereo e raggiungere questi ragazzi, queste giovani donne, queste storie che abbiamo appena cominciato a conoscere e sentire la causa come se fosse nostra, soprattutto perché un film del genere, questo film, loro, in patria, non potranno vederlo mai.

martedì 18 febbraio 2014

il film belga.



Alabama Monroe: Una Storia D'amore
The Broken Circle Breakdown, 2013, Belgio, 111 minuti
Regia: Felix Van Groeningen
Sceneggiatura non originale: Carl Joos, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch
Basata sullo spettacolo The Broken Circle Breakdown
Featuring The Cover-Ups Of Alabama di Johan Heldenbergh & Mieke Dobbels
Cast: Veerle Baetens, Johan Heldenbergh,
Voto: 7.5/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
film straniero
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Ispirato alla “performance teatrale” dall'omonimo titolo (originale) The Broken Circle Breakdown di Johan Heldenbergh, già nel precedente film di Van Groeningen, la pellicola candidata all'Oscar in rappresentanza del Belgio narra le vicende di Didier (Heldenbergh) ed Elise (Veerle Baetens), coppia bluegrass con bambina di sette anni malata di cancro, che vediamo già dall'inizio in ospedale a combattere contro i rigurgiti della chemio e la perdita dei capelli. Si alternano immagini dei genitori, sereni e spensierati, che supponiamo appartenere al passato; è giusto, ma non solo. La particolarità del film è proprio il montaggio, come fu per il già citato precedente The Misfortunates: a queste succedono scene di Elise in ambulanza, che corre priva di coscienza seguita dalla macchina del marito in completo bianco (quando lo indosserà?). Lui, barbuto suonatore di benjo; lei, tatuatrice stracolma di tatuaggi che ora copre il nome di un ex fidanzato ora ne scrive uno entrante sulla pelle. Si conoscono nel di lei studio, e lui attacca a parlare della buona musica, del suo gruppo, dei suoi testi – dopo la prima a Berlino, la colonna sonora del film, curata anche da Bjork Eriksson, si è imposta in cima alla classifica dei dischi più venduti in patria. Poi, mentre la nostra Grande Bellezza agli European Film Awards faceva incetta di statuette, miglior film incluso, la star nazional-popolare Veerle Baetens batte a sorpresa la sublime Barbara Sukova di Hannah Arendt, perché almeno un premio uno doveva riceverlo. Ed è questo, più de Il Sospetto, il film che dobbiamo temere la notte del 2 marzo. Mentre il nostrano Sorrentino dirige la decadenza di un Paese capeggiata da Toni Servillo, un Guido Anselmi di oggi che non riesce a scrivere come quello non riusciva a dirigere, nella Roma della dolce vita, Felix Van Groeningen fa il furbo e gioca doppiamente con l'animo umano: impietosendoci davanti alla figlia Maybelle che riceve una collana da dare alla sua progenie – che immaginiamo non avrà mai; e poi raccontandoci la follia del lutto, la perdita di terreno sotto ai piedi, di motivi per vivere, lo sfacelo dei sentimenti – e la seconda parte segue questa frammentazione anche nell'ordine delle cose che ci dice, che impazzisce. Si aggiunge la polemica politica, l'impossibilità dello studio delle staminali, l'attacco a microfono aperto al Vaticano, un pelo fuori luogo ed esagerato (quanto gli piace l'America? In TV non si parla d'altro) ma utile alla conclusione del film, la più bella conclusione di quest'anno forse, toccante, straziante, originale (ma non troppo). Altra furberia: darci alti e bassi per mantenerci in tensione, continuamente, chiederci come andrà a finire, dopo 45 minuti non abbiamo più idea di cosa possa succedere. E tutto si concentra attorno a lei, una madre improvvisa(ta), una donna a cui non avremmo mai messo in braccio una bambina e che si trasforma quando le arriva. L'uomo, e tutti gli uomini, sono figure di contorno: gli altri membri del gruppo non li distinguiamo nemmeno, con tutta quella barba a testa. Facilità compensata dagli espedienti tecnici – non si scende mai nel musical, non che ci sia qualcosa di male, ma nemmeno alla fine, quando miracolosamente il titolo italiano trova un senso molto più interessante e toccante dell'originale.

lunedì 17 febbraio 2014

Bafta 2014 - vincitori.



Tante previsioni azzeccate e qualche sorpresa ai British Academy Film & Television Awards consegnati ieri sera a Londra; e le sorprese derivano soprattutto dall'assenza in tutte le categorie di Dallas Buyers Club, che quindi cede il suo trofeo del miglior attore, vinto da Chiwetel Ejiofor per 12 Anni Schiavo, accolto da un'ovazione spettacolare (forse perché effettivamente più meritevole), e del suo attore di supporto, non più Jared Leto ma nemmeno Michael Fassbender: vince Barkhad Abdi, il pirata di Captain Phillips, anche lui sale sul palco tra gli applausi generali. Il film di Steve McQueen si deve accontentare di questo e del più importante premio perché neanche Lupita Nyong'o arraffa le due statuette a cui era candidata: la star emergente votata dalla giuria EE è Will Poulter (nella foto a sinistra, insieme agli altri candidati Léa Seydoux e George Mackay), protagonista di Come Ti Spaccio La Famiglia, che batte il ben più navigato Dane Dehaan (Chronicle, Come Un Tuono, Lawless, Giovani Ribelli, Spider-Man). Due premi (giusti) alle arti sceniche e sartoriali de Il Grande Gatsby, tre (ingiusti) ad American Hustle – trucco, sceneggiatura non originale e, di nuovo, ancora, Jennifer Lawrence attrice non protagonista, la prevedibile Cate Blanchett migliore interprete femminile per Blue Jasmine, che ringrazia e dedica il premio a Philip Seymour Hoffman, il prevedibile Frozen miglior film d'animazione e poi il vero acchiappa-tutto: Gravity è il miglior film inglese, del miglior regista, fotografia, colonna sonora, effetti visivi e suono. La Grande Bellezza batte La Vita Di Adèle e L'atto Di Uccidere, che vince come documentario, mentre il miglior debutto è di Kieran Evans, regista, dopo qualche collaborazione televisiva a tema musicale, del tenero Kelly + Victor.
Qui la pagina ufficiale di tutti i candidati e vincitori; qui l'account YouTube della BBC con i video (non tutti) della serata; mentre di seguito, dopo l'interruzione, l'elenco dei candidati e, in blu, i vincitori.

miglior film
Anthony Katagas, Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner e Steve McQueen per 12 Anni Schiavo
Charles Roven, Richard Suckle, Megan Ellison e Jonathan Gordon per American Hustle - L'apparenza Inganna
Scott Rudin, Dana Brunetti e Michael De Luca per Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Gabrielle Tana, Steve Coogan e Tracey Seaward per Philomena
Alfonso Cuarón & David Heyman per Gravity

miglior film inglese
Justin Chadwick, Anant Singh, David M. Thompson e William Nicholson per Mandela: Long Walk To Freedom
John Lee Hancock, Alison Owen, Ian Collie, Philip Steuer, Kelly Marcel e Sue Smith per Saving Mr. Banks
Stephen Frears, Gabrielle Tana, Steve Coogan, Tracey Seaward e Jeff Pope per Philomena
Clio Barnard & Tracy O’Riordan per The Selfish Giant
Alfonso Cuarón, David Heyman e Jonás Cuarón per Gravity
Ron Howard, Andrew Eaton e Peter Morgan per Rush

domenica 16 febbraio 2014

Goya 2014 - vincitori.




Più di tre milioni e mezzo di telespettatori hanno seguito la cerimonia di premiazione dei Premi Goya l'altra sera, sintonizzati su La 1 di TVE ad assistere al trionfo della pellicola di David Trueba, che partecipava all'evento per la sesta volta dopo i cinque anni in cui non aveva ottenuto niente con i suoi documentari. Il suo Vivir Es Fácil Con Los Ojos Cerrados ottiene sei premi: miglior film, regia, sceneggiatura originale, colonna sonora, attrice rivelazione (Natalia de Molina) e attore protagonista, Javier Cámara (nella foto), anche per lui alla sesta candidatura e al primo premio vinto come attore. L'altro film che Cámara vedeva in gara, Gli Amanti Passeggeri di Almodóvar, non conquista nemmeno l'unico premio a cui era candidato (costumi). Neanche La Grande Bellezza ce la fa, contro il capolavoro Amour giustamente imbattibile, né riesce ad essere eletto miglior film iberico Gloria di Sebastián Lelio, dal Cile, non candidato all'Oscar, contro Azul Y No Tan Rosa. Solo due premi per La Herida (regista esordiente, attrice protagonista) e due per La Gran Familia Española (canzone originale, attore non protagonista) che contava ben undici nominations.
Qui il sito ufficiale con tutti i vincitori e i candidati delle altre categorie mentre di seguito, dopo l'interruzione, le categorie principali.

miglior film spagnolo
15 Años Y Un Día [15 Years And One Day] di Gracia Querejeta
Caníbal [Cannibal] di Manuel Martín Cuenca
La Gran Familia Española [Family United] di Daniel Sánchez Arévalo
La Herida [Wounded] di Fernando Franco
 Vivir Es Fácil Con Los Ojos Cerrados  di David Trueba

miglior film ibero-americano
 Azul Y No Tan Rosa  di Miguel Ferrari (Venezuela)
Gloria di Sebastián Lelio (Chile)
Il Medico Tedesco di Lucía Puenzo (Argentina)
La Gabbia Dorata di Diego Quemada-Diez (Guatemala and Mexico)

miglior film europeo
 Amour  di Michael Haneke (Austria)
Il Sospetto di Thomas Vinterberg (Danimarca)
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (Italia)
La Vita Di Adèle di Abdellatif Kechiche (Francia)

venerdì 14 febbraio 2014

ADG, ACE e VES Awards - vincitori.



Se non c'è niente di sconvolgente alla consegna dei 18esimi Art Directors Guild Awards consegnati poche sere fa dal Sindacato degli Scenografi Americani a Il Grande Gatsby (in odore di Academy Award, l'unico), Gravity e Her (il più meritevole) per l'eccellenza nelle scenografie realistiche e immaginarie, si respira aria di nuovo ai risultati dei 64esimi American Cinema Editors EDDIE Awards, premi dei migliori montaggi per lungometraggi cinematografici: Captain Phillips vince il trofeo per la pellicola drammatica mentre i montatori di American Hustle (Jay Cassidy, Crispin Struthers e Alan Baumgarten, nella foto) la miglior commedia. Completano il ventaglio il super favorito film d'animazione Frozen e il documentario 20 Feet From Stardom, ma è sui due lungometraggi di finzione che bisogna puntare l'occhio. I maggiori contendenti, 12 Anni Schiavo e la fatica di Cuarón, sono stati battuti da un film “minore” come quello di Greengrass, e dal terzo super-favorito American Hustle. Agli Oscar non dovrebbe andare così: il miglior montaggio, si sa, è il premio tecnico più importante che si trascina dietro il miglior film. Tutto come previsto anche durante la consegna dei 12esimi Visual Effects Society Awards, premi del Sindacato degli artisti digitali che hanno reso vere le sorelle del Regno di Ghiaccio, le battaglie di The Lone Ranger (da noi si chiamerà Lone Survivor) e i meteoriti di Gravity. Quest'ultimo, si prepara a ricevere la più certa delle statuette del 2 marzo.
Di seguito dopo l'interruzione tutti i candidati e, evidenziati, i vincitori di ogni cerimonia.

venerdì 7 febbraio 2014

river deep, mountain high.



20 Feet From Stardom
id., 2013, USA, 91 minuti
Regia: Morgan Neville
Cast: Darlene Love, Merry Clayton, Lisa Fischer,
Judith Hill, Claudia Lennear, Bette Midler, Janice Pendarvis,
Sting, Mick Jagger, Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Sheryl Crow
Voto: 7.1/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
documentario
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I “venti piedi dalla celebrità” del titolo sono quelli che separano la fila di coriste dall'artista sul palcoscenico, cantante o musicista celebre che si prende le glorie e le ovazioni mentre loro, mezze all'ombra, ci mettono la voce. Questi “venti piedi” spesso si cerca di accorciarli, diminuirli, e questo documentario racconta i successi e gli insuccessi delle vocalist, spesso nere, che hanno assecondato (e che avrebbero potuto fare) la storia della musica dagli anni '50 ad oggi. In principio erano ragazzine bianche, che accompagnavano sulla stessa linea il cantante di turno, con pochi movimenti e tanta compostezza. Poi irruppero le donne di colore: sfrenate, acute, la cui presenza sul palco era già show. Spesso le nere registravano brani che poi venivano sincronizzati sulle labbra di qualche bianca, per spettacoli televisivi; l'opera di una sola veniva pubblicizzata come lavoro di gruppo. Si sente l'eco di un film non lodevole ma che pure aveva, tra lustrini e dive, raccontato la difficoltà della black music ai tempi. In Dreamgirls si sottolineava come il successo sia cosa vana, evanescente: come la scalata delle chart porta a una troppo pesante presenza dell'etichetta discografica, dei produttori, di manager che decidono all'occorrenza di mandare qualcuno a casa; parlava anche delle cover realizzate a partire da brani di piccola diffusione, spacciandoli per originali, senza pagarne i crediti. Adesso, tutta questa cattiveria in questo film non c'è, ma si percepisce il sapore di sfiancamento contro cui questi personaggi si devono scontrare ogni giorno. «Credevo che se ci avessi messo tutto l'impegno del mondo, se avessi usato il mio dono lavorandoci, studiando, svegliandomi all'alba per cantare con sentimento, ce l'avrei fatta». Invece per ogni Tina Turner o Patti LaBelle che ci riesce, dieci di loro finiscono a fare le pulizie nei bagni dei bianchi, a cercare lavori “veri” per campare, «la gente crede che non debba stendere un contratto per una corista, che non debbano essere pagate». E sono pochi gli artisti che invece hanno il coraggio di dire: «puntale addosso il faretto». L'hanno fatto Sting, Stevie Wonder, Mick Jagger, tutti presenti qui dentro a dare testimonianza delle straordinarie capacità delle voci che li hanno accompagnati. Attraverso importanti passaggi storici, si disegna velocemente il percorso di questo difficile mestiere: dalla rivoluzione d'intenti apportata da Sweet Home Alabama fino alla morte di Michael Jackson che ha annaffiato il bocciolo di celebrità di Judith Hill – finita da poco alle spalle di Kylie Minogue. Lei è una delle tre principali figure attorno cui ruota la pellicola: le fanno compagnia Lisa Fischer e Darlene Love. La prima, corista storica di Sting, è riuscita da solista a vincere anche un Grammy, che adesso spolvera nella libreria in plastica di casa. Ma si passa anche attraverso l'incredibile voce di Táta Vega, la carriera di Claudia Lennear – tutti nomi che non ci dicono niente ma che hanno reso le canzoni dei Rolling Stones e di David Bowie quello che sono. Il problema del documentario è che consuma il suo intento nella prima mezz'ora, nel raccontarcelo: dopodiché diventa una carrellata di curiosità su queste donne (o si altro: le musiche de Il Re Leone, la canzone Thriller e addirittura i versi degli animali di Avatar contengono le voci di questi attori), una serie di aneddoti sulle loro vite e non più sul mestiere in generale. I dischi di una, le performance di un'altra, i premi, le collaborazioni. Ma il montaggio di Morgan Neville (bianco appassionato di musica, già regista di Johnny Cash's America) è furbo: alterna momenti di gospel a contributi d'autore (Paul Epworth, Sheryl Crow), canzoni eseguite dal vivo a battute e frecciatine di queste donne. Siamo partecipi della loro condizione grazie alla musica. «Siamo tutte figlie di sacerdoti» dicono, «abbiamo la musica nel sangue dall'infanzia». E noi ne gioiamo.

mercoledì 5 febbraio 2014

la tua ragione il tuo perché.



Lei
Her, 2013, USA, 126 minuti
Regia: Spike Jonze
Sceneggiatura originale: Spike Jonze
Cast: Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson, Amy Adams,
Rooney Mara, Olivia Wilde, Chris Pratt, Kristen Wiig
Voto: 8/ 10
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Candidato a cinque Premi Oscar:
film, sceneggiatura originale (Spike Jonze)
scenografia (K.K. Barrett & Gene Serdena)
musica (Will Butler & Owen Pallett), canzone (Karen O & Spike Jonze)
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Il futuro secondo Spike Jonze è abbastanza prevedibile: l'uomo e la macchina vivono quasi in simbiosi, il tempo non è più denaro ma oro, la collaborazione virtuale ha superato i limiti di Wikipedia ed è estrema, al punto che c'è qualcun altro, qualcuno più capace, che paghiamo per scrivere lettere toccanti a nome nostro (ed è questo il mestiere di Joaquin Phoenix ed è questa la trovata più interessante del film); il sesso si fa al telefono, senza vedersi, attraverso una piattaforma di annunci hot; le mani possono essere impegnate a fare altro perché i computer hanno il riconoscimento vocale. Succede poi che i software vengono muniti di voce e capacità relazionare, e col nome di OS vengono messi in commercio – richiamo/ frecciatina che ricorda lo scontro PC vs. Mac che era già alla base visiva di WALL•E. Joaquin aka Theodore installa la versione a voce femminile, le chiede come si chiami e lei in meno di un secondo ricerca nel web elenchi di nomi esistenti, ne sceglie uno e risponde «Samantha». Funzionerà anche da spenta: leggerà la posta, invierà mail, controllerà le previsioni del tempo, formulerà basi musicali – in modo che Theodore possa elaborare la fine del suo matrimonio con Rooney Mara (dimenticate la ragazza Che Giocava Con Il Fuoco) e firmarne finalmente le carte per il divorzio. Ma i ricordi sono troppi e sono strazianti e, nel futuro come oggi, separarsi non è facile. Succede poi che la relazione con Samantha-il-software aumenta e noi siamo spettatori della perfetta evoluzione di un rapporto, che rispecchia tutte le realtà, e semplicemente non conta uno dei due corpi; siamo continuamente di fronte a Phoenix, che ormai totalmente a suo agio con la macchina da presa si emoziona, s'ammattisce, si incanta davanti allo smartphone come faremmo noi se ascoltassimo un messaggio vocale. Lui però ascolta una voce, quella di Scarlett Johansson, che vive il dramma di non essere reale, che si sorprende nel provare emozioni; sarà restio nell'ufficializzare il fidanzamento davanti ad altri e quando lo farà non riscontrerà nessuna sorpresa. Non è una critica a ciò che diventeremo: è una constatazione di quello che siamo – ci conosciamo on-line, chattiamo, ci videochiamiamo, e nella fascia più adolescente che sta vivendo il momento, crediamo di innamorarci effettivamente di persone che non abbiamo mai visto. Il futuro di Spike Jonze è imminente, non a livello tecnologico (dove la barra del caricamento imita il DNA umano) ma comportamentale, e prevede la stessa nascita crescita e morte dei sentimenti tra umani e non umani. Il tutto circondato dai meravigliosi fondali di K.K. Barrett (scenografie, già con Jonze nei film precedenti) e Gene Serdena (set), che hanno inventato una condizione post-moderna ritornando all'elemento del colore puro, aiutate dall'immensa fotografia di Hoyte Van Hoytema (The Fighter, La Talpa). Nonostante ciò, è il film più debole della scarna carriera cinematografica dell'autore, cominciata in pompa magna con Essere John Malkovich e andata piano piano calando: si sente l'assenza dei collaboratori alla sceneggiatura, da una parte per la mancanza di aspetti surreali preponderanti (esemplare la differenza col film scritto e diretto da Charlie Kaufman) dall'altra per una serie di lacune narrative – ma sarà colpa anche della quasi totale presenza di un solo attore che si carica non solo la pellicola ma anche i dialoghi (uno dei quali, il più piccante, è con Kristen Wiig). Le lacune cinematografiche vengono però colmate dall'intento, dall'essere riuscito a costruire un film ambientato nel futuro che non parla di marchingegni e navicelle e macchine ma di sentimenti: un non-sci-fi. Perché, in fondo, le navicelle non arriveranno mai.

il film danese.



Candidato al Golden Globe, in corsa per il BAFTA di domenica 16 e poi per l'Oscar del 2 marzo, vincitore della Palma al miglior attore Mads Mikkelsen e del Premio della Giuria Ecumenica a Cannes 2012, Il Sospetto è uno dei due film contro cui la nostra Grande Bellezza ha probabilità di perdere. Ed ha probabilità di perdere in parte perché l'Academy ama sempre dare l'Oscar al film straniero a sorpresa (si ricordi l'anno del Nastro Bianco e de Il Profeta) (e si guardi la cinquina di quest'anno), in parte perché l'effettiva concorrenza (La Vita Di Adèle, Il Passato, La Bicicletta Verde) non compare in gara, come non compare un unico film arraffa-tutto, tutti i premi stranieri, come fu per Amour l'anno scorso e Una Separazione quello prima. E la probabilità di farcela per Il Sospetto si misura sulla filmografia del suo regista Thomas Vinterberg, autore di un cult ormai consolidato, Festen, che fu snobbato dall'AMPAS ma ha fatto la storia, e di un altro film apprezzato, Submarino, che passò in concorso a Berlino. A ciò si aggiunge la cerimonia appena conclusa dei 67esimi Bodil Awards, i premi del cinema nordico (qui i vincitori, ma non sono in inglese) dove lo scontro era tutto tra il film di Vinterberg e quello di Lars von Trier, che ha produzione danese ma è recitato in inglese, Nymphomaniac, presuntamente diviso in due parti, probabilmente in Italia dopo la primavera. Al pimo sono andati i trofei per il miglior film, l'attrice non protagonista (Susse Wold), l'attore e la fotografia; al secondo è stata premiata l'interpretazione della protagonista Charlotte Gainsbourg (era contro Stacy Martin dallo stesso film), dopo che aveva ottenuto nominations anche per von Trier, Jamie Bell (non protagonista), Uma Thurman (non protagonista) e Stellan Skarsgård (protagonista). In questa edizione poliglotta c'era anche Kristin Scott Thomas per Solo Dio Perdona, e i film stranieri erano divisi in americani e non-in-inglese: Beasts Of The Southern Wild batte Frances Ha, Before Midnight, Django e addirittura Gravity; La Vita Di Adèle vince contro il nostro Sorrentino, il francese Ruggine E Ossa, la trilogia di Ulrich Seidl Paradise (Austria) e l'altro concorrente a cui dobbiamo stare attenti, Alabama Monroe.

ritirare il premio.




Nebraska
id., 2013, USA, 115 minuti
Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura originale: Bob Nelson
Cast: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk,
Stacy Keach, Mary Louise Wilson, Rance Howard
Voto: 8.7/ 10
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Candidato a sei Premi Oscar:
film, regia (Alexander Payne), sceneggiatura originale (Bob Nelson)
attore (Bruce Dern), attrice non protagonista (June Squibb)
fotografia (Phedon Papamichael)
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Il primo film diretto ma non sceneggiato da Alexander Payne, e il secondo a non essere basato su un romanzo di partenza come l'ultimo Paradiso Amaro, è una perla in bianco e nero che ritorna sul road-way di Sideways ma alza (di molto) l'età media. È lo scontro generazionale, è l'invecchiare che fa tornare bambini: Woody Grant si alza ogni mattina dal letto e, con la gamba mezza zoppa, cammina dal Montana verso lo Stato del Nebraska, convinto di dover ritirare un premio da un milione di dollari; ogni mattina ora un agente di polizia ora uno dei due figli incrocia e recupera l'anziano, e lo riporta a casa, dove la moglie gli urla dietro e aspira all'ospizio. Inutile fargli notare che la lettera d'avviso del milione vinto è in realtà una pubblicità: Woody è convinto, e laggiù vuole andare. Sarà il figlio meno realizzato, appena lasciato dalla fidanzata e stanco del lavoro di commesso di elettronica, a portarcelo. Più per evadere che per recuperare il denaro. «Mi ha fatto piacere che abbiamo passato un po' di tempo insieme» dirà al genitore, e siamo commossi nell'aspettare che questa frase uscirà dalla nostra bocca, verso un nostro vecchio, ormai troppo vecchio perché sia in grado di recuperare un affetto che forse avremmo dovuto lavorare di più, rendere più fisico. Padre e figlio non si abbracciano mai, non si guardano truffaldigni, non sono complici: gli unici contatti fisici sono quelli della deriva, quando Woody perde la dentiera, o cade e si rompe la testa, o ha i mancamenti in strada. L'età e gli imprevisti faranno sostare i due lungo il tragitto alla scoperta di un'infanzia ormai andata, una famiglia dispersa col tempo, una serie di amici non così onesti – tutti chiacchieranti il milione vinto, così privi di altri interessi, vuoti di altre iniziative, gente di paese che aspetta con ansia una novità. I luoghi sono dipinti bene, desolati e desolanti, e così le persone, tutte conoscenti e fintamente amiche. Ma dove il personaggio di Will Forte (figlio) è banale, uno Zeno inetto che non solo non fuma ma non fa nient'altro quando il fratello splende in televisione, Bruce Dern (padre) è realistico, in un'interpretazione immensa (Palma a Cannes 2013), talmente vero che ci si dimentica della recitazione: si addormenta con la bocca aperta, fa vedere le gengive nude, si fa umiliare nei locali – tutti aspetti umani di una persona e non di un personaggio. Sua moglie June Squibb è l'opposto: sveglia, vispa, dignitosa, sempre a lamentarsi del consorte ma guai a chi parla male di suo marito. È lei che ci concede le più divertenti immagini del film (il furto del compressore su tutte). Pare che Alexander Payne si lasci trascinare, si metta in viaggio sulla sceneggiatura molto buona di Bob Nelson, al suo esordio con la macchina da scrivere, in un bianco e nero che riporta ad altri tempi – e un film al passato effettivamente sembra; invece è la realtà quotidiana dei piccoli centri, delle periferie, dell'America con poche insegne lungo la strada; un'America rimasta indietro, che non conosce Hollywood né ne è interessata, come per una volta il suo regista.
Una delle migliori produzioni dell'anno, sicuramente, con qualche pecca – ma un'originalità e un coraggio (fare un film pieno di vecchi, con un protagonista così silenzioso, con una trama così scarna) notevoli.

lunedì 3 febbraio 2014

ASC Awards - vincitori.



Era tutta tra Bruno Delbonnel ed Emmanuel Lubezki (foto) la gara alla migliore fotografia durante i 28esimi ASC Awards, e il Sindacato ha deciso di premiare per la quarta volta il secondo, già vincitore per I Figli Degli Uomini sempre di Cuarón, soprattutto perché per Delbonnel era la prima esperienza con i Coen, che hanno rinunciato al loro storico fotografo Roger Deakins comunque candidato per Prisoners (e vincitore l'anno scorso per Skyfall). Dunque i tre, presenti tutti nella cinquina della migliore fotografia agli Oscar, lotteranno per ricevere il premio, che sarebbe il primo per ognuno: Deakins, dal '95 ad oggi, ha accumulato ben 11 nominations senza mai ritiare la statuetta; Delbonnel, vincitore dell'ASC per il francese Una Lunga Domenica Di Passioni e candidato per Amèlie, 4 (Harry Potter 3 incluso); Lubezki, vincitore morale due anni fa per The Tree Of Life, 6. Peccato per Nebraska, un bel bianco e nero, e per 12 Anni Schiavo, che ormai ha finito la sua incetta di glorie. Qui il sito ufficiale dell'associazione, che non vi dirà altri vincitori o altri candidati dato che non conta altre categorie, ma informa sul mestiere del direttore di fotografia e intervista i più importanti nomi del cinema internazionale. Di seguito, tutti i candidati dell'edizione 2014.

american society
of cinematographers
Sean Bobbitt per 12 Anni Schiavo
Barry Ackroyd per Captain Phillips - Attacco In Mare Aperto
Emmanuel Lubezki per  Gravity 
Bruno Delbonnel per A Proposito Di Davis
Phedon Papamichael per Nebraska
Roger Deakins per Prisoners
Phillippe Le Sourd per The Grandmaster

Writers Guild Awards - vincitori.



Her si porta a casa il premio per la migliore sceneggiatura originale ai Writers Guild Awards 2014, e per Spike Jonze (foto) la strada verso l'Oscar della categoria è tutta in discesa. Il regista, candidato al Golden Globe per Il Ladro Di Orchidee e all'Academy per Essere John Malkovich, ma sempre come direttore, trova consensi col suo film più debole, originale ma più asciutto – forse perché gli mancano dei grassi concorrenti (lo sarebbe Bob Nelson per la sua opera prima, Nebraska, e lo sarebbero stati Greta Gerwig e Noah Baumbach con Frances Ha). Ci fa comunque sempre piacere che il meno prolifero autore americano accumuli statuine, e fa ridere che sia in gara contro il super-prolifero Woody Allen, giunto alla sua ventunesima nomination ai WGA (ha vinto cinque volte) La migliore sceneggiatura scritta a partire da materiale esistente è quella di Billy Ray basata sul romanzo Il Dovere Di Un Capitano di Richard Phillips, interpretato sullo schermo da Tom Hanks e diretto da Greengrass in Captain Phillips. Manca qui Philomena, più grande concorrente della categoria agli Oscar. Manca poi, a quei premi, il documentario di Sarah Polley Stories We Tell, elogiato come uno dei migliori film dell'anno, che vince questo premio (senza combattere con The Act Of Killing e 20 Feet From Stardom) e quasi nient'altro in tutta la stagione.
Qui gli altri vincitori per le categorie televisive; di seguito, dopo l'interruzione, i candidati e i premiati per il cinema.

sabato 1 febbraio 2014

premi César - nominations.



Una delle poche volte che quasi tutti i film in gara ai 39esimi premi César del cinema francese hanno avuto distribuzione italiana – complice forse la loro massiccia presenza allo scorso Festival di Cannes. Ovviamente trascina il carro di nominations La Vita Di Adèle (nove), che preferisce schierare Léa Seydoux come attrice protagonista e la rivelazione Adèle Exarchopoulos come interprete emergente; bene anche Il Passato di Farhadi che, snobbato dagli Oscar nella shortlist dei migliori film stranieri, qui incassa cinque candidature grazie alla produzione metà iraniana e metà francese, e alla sua protagonista Bérénice Bejo Palma d'Oro a Cannes. A sorpresa (ma non troppo) trova grandi consensi Lo Sconosciuto Del Lago; addirittura otto candidature per la storia thriller del cruising gay tra i cespugli di una spiaggia semi-nudista – inclusi il miglior film, la regia e la sceneggiatura originale di Alain Guiraudie. Altra tematica scottante ma affrontata in modo completamente diverso è quella di Tutto Sua Madre, attualmente nelle nostre sale e nelle nostre librerie (edizione Frassinelli): Guillame Gallienne ottiene ben quattro nominations personali (regia, sceneggiatura, interpretazione maschile – recita pure per sua madre – e opera prima) che si sommano alle altre sei della pellicola, per un totale di dieci, record dell'anno. Sette per Venere In Pelliccia, ultimo capolavoro di Polanski che conta su una buona sceneggiatura, due immensi protagonisti e un impeccabile sonoro; tre nomine tecniche a La Schiuma Dei Giorni di Gondry, la surrealista ed estenuante epopea di una coppia in difficoltà: costumi, scenografie e musica, tutto ciò che è visionario. Per assurdo il film inviato agli Oscar, Renoir, viene candidato solo all'interpretazione maschile, i costumi, le scene, la fotografia – e non al miglior film, dove compaiono la storia di una gravidanza inattesa di 9 Mois Ferme e il primo film americano di Arnaud Desplechin, Jimmy P. Lascio per ultima la notizia che: La Grande Bellezza è tra i migliori film stranieri – ma se la deve vedere addirittura con Gravity, Django, Blancanieves, Blue Jasmine e il solito Broken Circle.
Di seguito, dopo l'interruzione, tutti i candidati; qui il sito ufficiale. I premi saranno consegnati venerdì 28 febbraio al Théatre du Chatelet a Parigi.

miglior film
9 Mois Ferme
Jimmy P
Il Passato
Lo Sconosciuto Del Lago
Tutto Sua Madre
Venere In Pelliccia
La Vita Di Adèle