mercoledì 19 febbraio 2014

i peperoni erano piccoli.



The Square - Inside The Revolution
Al Midan, 2013, Egitto/ USA, 108 minuti
Regia: Jehane Noujaim
Cast: Khalid Abdalla, Dina Abdullah, Dina Amer,
Ahmed Hassan, Ramy Essam, Ragia Omran
Voto: 7.6/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
documentario
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Premiata dal pubblico al Sundance 2013 e miglior regista di un documentario ai DGA di quest'anno, a cui era già stata candidata nel 2005 per Control Room, inchiesta su ciò che la televisione islamica cela e quella americana rivela, Jehane Noujaim tenta l'impossibile e scende in strada a gennaio 2011 con i suoi cameraman per documentare le fasi della rivolta che abbatterà, in tre anni, tre regimi. Lei non sapeva che ci sarebbe rimasta, e tornata, per tre anni: ricevendo il premio al Sundance ha saputo che nuove manifestazioni erano scoppiate nella sua terra natia e si è precipitata per riprendere le vicende 2013. Quello che uscirà in pochissime sale questo giovedì, grazie ad Unipol e La Feltrinelli, non è il documentario passato dal festival; è più lungo, e raggiunge le elezioni dell'anno scorso. Lo fa servendosi di un gruppo di personaggi che segue minuziosamente e che incarnano il fervore e la filosofia della protesta: Ahmed Hassan, giovane infervorato leader dei rivoltosi buoni, colui che forse più di tutti riassume l'approccio al cambiamento; l'attore de Il Cacciatore Di Aquiloni Khalid Abdalla, nato in Inghilterra e tornato in Egitto per la causa, con la funzione di mediatore tra il popolo urlante e le televisioni, soprattutto – anzi, esclusivamente – estere; e poi un adepto della fazione opposta, la Fratellanza Mussulmana, e ancora l'avvocatessa dei Diritti Umani. In tutto ciò, dal gennaio di tre anni fa, piazza Tahrir nel centro del Cairo è diventata il simbolo dell'opposizione alla politica, e da qui il titolo del film. Scesi in strada per ribellarsi ai trent'anni di perenne stato d'allarme della dittatura fascista di Mubarak, costretto poi a dimettersi, questi ed altri personaggi sono tornati a protestare per le ingiuste e corrotte elezioni del 2012 vinte da Morsi, che si è riconosciuto poteri illimitati con i quali giustifica le risposte violente. «Abbiamo fatto cadere il primo regime, abbiamo fatto cadere il secondo, aspettiamo di far cadere l'altro» dice Ahmed, «ormai il nostro posto è qui». In piazza, ma sempre in pace. Nessuno di loro ha una pietra, nessuno un'arma. Gli unici attacchi sono verbali, privi di insulti: rimproveri ai Fratelli Mussulmani di aver stretto la mano ai militari che hanno investito i ragazzi al sit-in coi carri armati. E le poche volte che l'esercito compare sullo schermo, in interviste o colloqui privati, sentiamo dire cose tipo «il proiettile che ha colpito i morti non è dell'esercito, non ci assomiglia per niente», oppure «un giorno mi ringrazierai per aver salvato questo Paese». La Noujaim non fa il gioco di Joshua Oppenheimer, di focalizzarsi sui “cattivi” e far parlare solo loro, per indignare lo spettatore che prende posizione; certo, qui una posizione viene palesemente presa – da lei e da noi, ma il raggio d'ascolto è più ampio, le figure parlanti sono di più e appartenenti a più fazioni. Dopo tre anni dall'inizio delle rivolte, dei primi sit-in fatti di cibo condiviso, di canti e balli, di slogan ripetuti in coro, il sangue ha macchiato troppe strade per tornare a quel clima, ma l'Egitto ha conquistato una cosa che prima non aveva: l'unità. Per cui qualsiasi tipo di ideologia si unisce alle altre per l'obiettivo comune, e il documentario ha il potere (immenso) di far unire anche noi, desiderosi di salire su un aereo e raggiungere questi ragazzi, queste giovani donne, queste storie che abbiamo appena cominciato a conoscere e sentire la causa come se fosse nostra, soprattutto perché un film del genere, questo film, loro, in patria, non potranno vederlo mai.

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