mercoledì 18 giugno 2014

#Cannes: vivo per lei.



Mommy
id., 2014, Canada, 139 minuti
Regia: Xavier Dolan
Sceneggiatura originale: Xavier Dolan
Cast: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément,
Alexandre Goyette, Patrick Huard
Voto: 9.1/ 10
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Premio della Giuria
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La Palma d'Oro mancata di quest'anno (che ogni anno non manca mai) si accontenta del Premio della Giuria ex-aequo con Adieu Au Langage, l'addio in 3D al linguaggio narrativo di Godard a favore di un'esperienza cinematografica di immagini e sensazioni. È ironico, non solo perché i due film sono opposti ma anche perché i registi erano il più giovane e il più anziano concorrenti a Cannes. Xavier Dolan aveva festeggiato poco prima del concorso i venticinque anni, gli ultimi cinque dei quali spesi a dirigere cinque film che ha portato quattro volte al festival francese e uno, l'anno scorso, a Venezia, in concorso. Si chiamava Tom À La Ferme, verrà proiettato in anteprima per il Festival Mix e aveva abbastanza convinto critica e giuria, a dispetto delle opere precedenti, visibilmente giovani(li), dall'indie-esteta Les Amours Imaginaires al trans-opic Laurence Anyways. Ma con questo Mommy – che ovazioni!, che applausi! Pare effettivamente uscito da chissà dove, visceralmente diverso dagli altri (sono, in realtà, tutti diversi tra loro) e maturo, nonostante il manierismo che lo soffoca di tanto in tanto. Merito, anche e soprattutto, di una protagonista stupenda, Anne Dorval, in estasi, colonna portante dell'opera, madre non cresciuta di un ragazzino difficile che, nell'ipotetico 2015 in cui si può “cedere” un figlio affinché venga curato se in preda a malattie patologiche, porta avanti la sua vita vestita da Spice Girl, firmando col cuore e con la penna attaccata ai portachiavi, (de)colorandosi un ciuffo biondo tra i capelli e salutando garbatamente i vicini con cui non entra in contatto. Dopo un confusionario incidente in auto, va a ritirare il ragazzino dal non-ancora-riformatorio con tanto di medico preoccupato di quel che sarà. A casa, in effetti, le cose andranno bene a intermittenza: basta una scintilla per far inalberare Steve, capace di alzare le mani e ribaltare armadi perché privo di controllo. Entrerà, in casa e nella vita, in punta di piedi, la dirimpettaia Suzanne Clément, balbuziente, composta, bravissima nel parlare con lo sguardo e con il corpo. Nascerà, come sempre quando non ce lo si aspetta, uno strano triangolo familiare fatto di cene, birre, compiti, scampagnate, progetti. Ma la vita, come i rapporti, è fatta di alti e bassi: e la trovata quasi geniale è nel formato dello schermo, che segue gli sbalzi d'umore del protagonista, uno scioltissimo Antoine-Olivier Pilon, senza inibizioni né freni, sempre a suo agio davanti alla macchina e ben azzeccato per il ruolo, ora sereno ora inquieto, perennemente preoccupato, angosciato che l'amore materno finisca. Perché è di questo che parla il film: dell'unico bene che non si smette di provare, quello di una madre per un figlio, o di un figlio per una madre, quando non si ha nient'altro nel mondo e ogni cosa appare precaria. E nonostante si proietti nel futuro, sebbene prossimo, forse per il tema più antico del mondo forse per l'età del regista che è cresciuto negli anni '90, la pellicola pare guardare indietro, facendo quasi a meno di ciò che per noi è ormai irrinunciabile: la tecnologia – privando la madre dell'automobile dalla prima scena, non mettendole il televisore in casa, né un computer, a malapena un cellulare, affidandosi a una colonna sonora che era «di un viaggio in California» fatta, fino all'azzeccata Born To Die, delle hit di due decadi fa. L'interpretazione della cosa va ovviamente alla genuinità del sentimento: la telecamera lavora benissimo, soprattutto attraverso carrellate a seguire e interruzioni di scena, a calarci nella tensione o nella commozione (ruffiana) del momento, a mostrarci la psicologia del personaggio. Solo alla fine verrà detto che semmai sarà Steve ad «amare sua madre sempre meno, crescendo», di fronte alle immagini di quello che potrebbe essere il futuro, a schermo intero, se il futuro fosse sereno. Ma se lo sarà non lo sappiamo né lo sapremo: certi personaggi, ed è la dannazione dei personaggi che restano indimenticabili, come questi tre, sono condannati, fisicamente malati di solitudine. Si sforzano di amarsi, e più lo fanno più lo schermo si stringe.

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