venerdì 24 ottobre 2014

il tempo passa.



Boyhood
id., 2014, USA, 165 minuti
Regia: Richard Linklater
Sceneggiatura originale: Richard Linklater
Cast: Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Elijah Smith,
Lorelei Linklater, Ethan Hawke, Libbi Villary, Jamie Howard
Voto: 8.1/ 10
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Ne parlava una coppia quasi anziana sull'autobus: il figlio trasferito a Londra aveva telefonato al pomeriggio e aveva consigliato di recuperare questo film, una volta uscito: il regista ci aveva messo dodici anni per girarlo perché utilizzava sempre lo stesso attore, che cresceva. Si dicevano: si chiama Boyhood, uno di quei vocaboli intraducibili da noi perché non è adolescenza ma non è neanche giovinezza, come diremmo?, ragazzezza? Ed è incredibile come questa coppia abbia anticipato argomento comune a molti: «è da vedere», un film che ci si è messo dodici anni a fare, un film che quando ti chiedono «di cosa parla?» rispondi non con la trama ma con la solfa: il regista ha scritturato un attore a circa otto, nove anni, e l'ha ripreso tutti gli anni per dodici anni, incredibile no?, e lo stesso ha fatto con gli altri interpreti, la madre, la sorella, nelle loro fasi della vita e nei loro cambiamenti, pensa se qualcuno fosse morto nel frattempo, come avrebbe fatto? E gli elogi fioccavano prima ancora che arrivasse in sala. Il cinema del futuro, dicevano alcuni: poi in sala il film arriva e si riflette su questa cosa, sul fatto che il cinema del futuro per una volta non rappresenti tecniche avanguardistiche digitali o di ripresa o di post-produzione, non riguardi la flora e la fauna inventate in Avatar o l'assenza di un vero set in Gravity: qui il cinema è al suo linguaggio puro e primo, essenziale e asciutto – eppure è cinema epico. Tutto sta nella trovata iniziale dei dodici anni; ma Richard Linklater ci ha abituato a queste operazioni a lungo termine, alla fede nel tempo che passa, come fa dire alla nonna in una delle prime battute, e che lascia immutate alcune cose, alcuni progetti, che permette (il tempo) che questi si concludano. Ne ha impiegati diciotto a far uscire tutta la trilogia di Jesse e Celine, che si sono conosciuti su un treno negli anni Novanta e avevano una figlia l'inverno scorso – e fa strano staccare Ethan Hawke da quel ruolo e calarlo in questo, di padre identico a se stesso, che per un decennio è stato impegnato su entrambi i set; così come fa strano vedere Patricia Arquette (splendido personaggio, che si dà forma e poi si disgrega e alla fine perisce) nei suoi vari caschetti biondi, ora più corti ora più biondi, nel suo prosperoso seno in vestiti sciatti o eleganti, che intanto girava tutte e sei le stagioni di Medium. Per questo fa specie guardare il film, riempie di nostalgia: si comincia così come la locandina ci mostra Ellan Coltrane e si prosegue in tutti gli anni Duemila nell'ordine cronologico degli eventi che li hanno fatti: Dragon Ball in televisione, l'attesa per i libri di Harry Potter e le serate a tema nei giorni delle pubblicazioni, la prima fama di Britney Spears, i cataloghi Postal Market da cui sbirciare i seni alla sezione Lingerie, il Game Boy che si fa Advanced, la prima candidatura di Obama, l'estate de Il Cavaliere Oscuro, poi la saga di Twilight scansata da Il Buio Oltre La Siepe nel dialogo tra il protagonista e una futura fidanzatina in una passeggiata-pianosequenza che riporta alla mente quelle scene dei Prima Di che ci sono piaciute un sacco e che, si vede, Linklater ama girare e che gli riescono meglio, i primi amori, i battibecchi, i discorsi seri e l'introspezione: il raccontarsi e il raccontare, il dialogo, è alla base di tutto il film, testamento della Storia americana degli ultimi quindici anni, che si racconta da sola e racconta una società che ha accettato il divorzio e si è abituata alla solitudine in vecchiaia, quando i figli partiti per il college decidono di non tornare, come forse ha fatto il figlio della coppia anziana che chissà se il film lo è andato a vedere: anche loro torneranno a casa e non sapranno raccontarne la trama: non c'è, o meglio, è troppo banale per essere raccontata, è normale, è realtà trasposta, è effettivamente il racconto di una ragazzezza che però in inglese comincia con boy-, riferendosi solo al figlio maschio di questa famiglia, nonostante nella prima fase sia totalmente oscurato dalla sorella Lorelei Linklater che splende bambina e purtroppo lentamente va appiattendosi, banalizzandosi. Immaginatela candidata all'Oscar (si mormorano molti premi): manderebbero in onda una clip di lei bambina. Questo fa specie, ed è strano che nessuno ci avesse mai pensato prima – e l'originalità deve sempre essere premiata. Lo è di più se, come in questo caso, brilla nella sceneggiatura (più che nella regia) e fa ridere molto più del previsto, al punto da non farci accorgere delle quasi tre ore.

il dubbio.



Il Giovane Favoloso
id., 2014, Italia, 137 minuti
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura originale: Mario Martone & Ippolita di Majo
Cast: Elio Germano, Massimo Popolizio, Raffaella Giordano,
Isabella Ragonese, Edoardo Natoli, Valerio Binasco, Michele Riodino,
Anna Mouglalis, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Federica de Cola
Voto: 6.8/ 10
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Noi Credevamo e i David di Donatello che esso aveva vinto avevano messo l'ex sconosciuto ai più Mario Martone (in pochi ricorderanno un vecchio cult, L'amore Molesto, e ancora meno la trasposizione di un romanzo di Goffredo Parise, L'odore Del Sangue) in una posizione di vantaggio verso il futuro: capace almeno su carta di fare ciò che voleva, con sempre un bagaglio non leggero di aspettative (altrui); e lui che cosa fa?, s'impelaga in un progetto che chiamarlo ambizioso è dire poco, fare eufemismo: porta sullo schermo Giacomo Leopardi, figura che non ci aspetteremmo mai di trovare altrove dai libri di letteratura e dalle antologie uscite col Corriere o La Repubblica, nella libreria di casa; «che strano» ha commentato perfino mia madre, abituata ai poliziotti e ai commissari in TV, ai biopic sugli attivisti politici e sociali, sui militari, sugli investigatori della CIA, sui mafiosi, sui pittori e i cantanti e gli scrittori e i giornalisti e gli altri attori, ma mai in grado di concepire in digitale un poeta. Giacomo Leopardi, poi!, che tutti sappiamo non esser mai uscito da casa schiacciato dalla gobba e dalle carte. Ed ecco cosa fa il film, furbescamente: ce lo presenta spesso fuori, all'aria aperta, nella natura e nella vita paesana; ce lo presenta in una casa che non vediamo mai per intero, in una famiglia che ci viene accennata ma magistralmente dipinta per piccoli tocchi: un padre presente, severo ma intimamente affettuoso, una madre devota, piegata, soggiogata dalla religione, privata di qualsiasi sentimento o reazione di fronte a Dio (è esemplare il commento alla morte di quella che tutti noi chiameremmo Silvia), un fratello e una sorella splendidi con cui Giacomo ha uno splendido rapporto ma dai quali, ahinoi, tenta di scappare perché «Recanati è stretta»: lui aspira alla fama, alla gloria in vita ed eterna, al riconoscimento – si vede elevato sulla folla ma tarpato nelle ali, e questa cosa ogni tanto l'ammette e ogni tanto no, e intanto studia, certo, ma studia quanto i suoi fratelli, non certo di più, anzi spesso di meno, perché cascato dalla seggiola o ipnotizzato di fronte alla finestra. Però ha il dono: traduce all'impronta dal greco, traduce con provocazione Omero, si auto-prescrive malori anatomici, passa notti insonni a fissare il cielo, declama i versi che tutti noi abbiamo imparato costretti a memoria – e li declama partorendoli, già pronti per essere declamati e imparati a memoria: forse avremmo preferito vederlo scrivere e cancellare e correggere e affinare termini e metrica, suoni e distici; invece tutto è subito, forse per problemi di spazio – ed ognuna delle tre poesie declamate lo è in modo diverso: un pianosequenza sulla faccia di Elio Germano prova d'attore e fiducia del regista per il primo Infinito e poi una trovata pazzesca, alla Malick, per la finale Ginestra: trovata azzeccatissima che forse si sarebbe dovuta declinare ogni volta. È bravo, Germano; ma questo lo sapevamo già. Sapevamo che è brava anche Isabella Ragonese a cui è dato pochissimo spazio e un personaggio un po' insipido. C'è solo all'inizio perché a metà il film stacca, si spezza, si trasforma: salto di dieci anni per trovare Michele Riodino e Anna Mouglalis stonati e posticci, personaggi di altre storie, di altre vicende che il non-più-giovane Giacomo rimira mentre il suo corpo si trasforma, la schiena s'abbassa, la gobba spunta e Napoli vive ingorda di dialetti e persone, e il Vesuvio erutta. Degli interni di cui prima si ha quel saporaccio approssimativo di certi prodotti per la TV, cosa che capita meno per i costumi e un po' di più per la recitazione (Iaia Forte esclusa che con un cameo dietro l'altro si sta facendo una carriera meravigliosa) e ne scaturisce un film forse fatto in fretta, in furia e con poco, che non valorizza per esempio Recanati – che non appare né claustrofobica né morta, semmai metafisica, che sottointende tensioni omosessuali ad ogni stretta amicizia, che abbozza una spregiudicatezza maligna che non approfondisce, che taglia del tutto il rapporto viscerale con la perfida Natura – e ci mostra invece un bordello, qualche ballo di corte, del sesso gratuito, una doccia.

martedì 14 ottobre 2014

il film straniero.



Sono 76 quest'anno i film e i rispettivi paesi partecipanti alla corsa per la statuetta 2015 del Miglior Film Straniero agli Oscar; se abbiamo avuto la meglio su qualche documentario e molti capolavori l'anno scorso grazie a quanto sei bella Roma, dopo sedici anni di astinenza da La Vita È Bella e una sola, inspiegabile, nomination per La Bestia Nel Cuore, sarà molto più difficile fare la doppietta con Il Capitale Umano: costruzione narrativa perfetta ma temi nostrani un po' troppo nostri. Ripeto: io avrei mandato oltreoceano Le Meraviglie, carico anche dell'importante premio di Cannes; ma io non sono in giuria. Il Canada, invece, ovviamente, manda l'altro importante premio di Cannes, Mommy di Xavier Dolan, al momento il candidato certo e magari vincitore: un film splendido e maturo per un regista neanche venticinquenne. Da Cannes vengono anche Timbuktu e il belga Due Giorni, Una Notte, che da noi uscirà a breve, dei fratelli Dardenne, per l'ennesima volta in USA dopo la sconfitta de Il Ragazzo Con La Bicicletta (il Belgio che a quest'Oscar si avvicina ogni anno di più: con Bullhead soprattutto, poi con Alabama Monroe) – e ovviamente la Palma d'Oro Winter Sleep e le sue tre ore e un quarto, già in sala. La Polonia schiera lo splendido Ida, poi: un film d'animazione, quattro documentari (che non fanno mai male: L'immagine Mancante nel 2014 ce la fece), un super-premiato film spagnolo, una insipida pellicola francese e una serie di film che scopriremo in questi mesi. La scrematura a nove sarà solo durante la prima settimana di gennaio; nell'attesa, di seguito, l'elenco completo.

putrida città.



Sin City - Una Donna Per Cui Uccidere
Sin City: A Dame To Kill For, 2014, Cipro/ USA, 102 minuti
Regia: Robert Rodriguez & Frank Miller
Sceneggiatura: Frank Miller
Basata sulla graphic novel di Frank Miller
Cast: Mickey Rourke, Josh Brolin, Joseph Gordon-Levitt,
Eva Green, Jessica Alba, Dennis Haysbert, Ray Liotta,
Jeremy Piven, Bruce Willis, Rosario Dawson, Juno Temple
Voto: 6.9/ 10
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Mickey Rourke cerca di ricostruire cronologicamente gli eventi che lo hanno portato a ritrovarsi, sull'asfalto, mezzo schiantato, con un morto di fianco, una macchina ribaltata: dei teppistelli, un inseguimento. La solita mascherona facciale lascia, come al solito, sbalorditi dalla metamorfosi di uno degli attori che ultimamente ha il dono del trasformismo (basti pensare al passaggio Sin City/ The Wrestler). Joseph Gordon-Levitt se la gode conscio della sua fortuna sfacciata al gioco quando parrebbe che la fortuna sfacciata lo accompagni anche in amore: trova una gallina che gli regge il fianco alle slot-machines mentre lui incassa i dobloni davanti agli occhi di tutti e, raggiunta certa somma, si addentra per i vicoli interni del solito bar di Sin City dove chi gioca lo fa con più ingordigia; Jessica Alba intanto dalle fessure delle porte guarda l'uomo che le ha portato via l'amore e beve, beve, beve anche esibendosi, con l'immagine di Bruce Willis che compare, stile Ghost, a rimproverarle la strada sbagliata. Ma il suo episodio non staccato sarà l'ultimo: prima si passa per ciò che dà il titolo al film: Eva Green, la donna per cui uccidere, che, svestiti i panni della femme fatale di Dark Shadows, sveste quelli della femme fatale qua, perennemente nuda a letto, in vasca, in piscina, nuda anche vestita (come cantava Mina). «Mi spoglio, e allora?» domanda lei alle pagine di Vanity Fair, e allora Josh Brolin ci casca: un omaccione è diventato, ma con la fissazione dell'ex come tanti omaccioni, che al primo bacio, al primo coito, al primo «ti amo» perde la forza delle gambe e cede a tutto. Per lei farà a botte con l'armadio-uomo che le fa d'autista, col marito che senza amori l'ha sposata, e ogni volta rimarrà fregato, lo scemo. Il Mickey Rourke di prima gli darà una mano, e lei andrà nel solito bar di Sin City: il gioco degli incastri narrativi regge bene, l'aveva già fatto nel film precedente: che è precedente di dieci anni. Questo racconta pezzi di storia basati sulla graphic novel di, e scritti da, Frank Miller, alcuni dei quali vengono prima del vecchio Sin City, alcuni dopo: lo chiamiamo per brevità Sin City 2 ma in realtà è anche un prequel. Dietro la macchina da presa il sodalizio continua con Robert Rodriguez, ma non è più sodalizio gioioso: il grottesco a cui questo regista ci ha abituati è ormai fine a se stesso, è ormai un'abitudine. Tutto, nel film, è abitudinario: dalla tecnica bianco e nero e qualche colore alle transizioni tra le scene un po' digitali e un po' no, che bene rendono la provenienza disegnata – ma sono passati dieci anni ed è una tecnica che non sorprende più, siamo stati abituati a ben altro. E poi, il grottesco di cui prima, se prima è sempre sfociato nella violenza gratuita, nell'esagerazione, nell'esasperazione (le torture di Jessica Alba e le perversioni dell'ometto giallo che la teneva legata, su tutte), adesso pare placato, nonostante i tanti morti ammazzati e il tanto sangue bianco fluo: è troppo poco. L'attenzione sembra essersi spostata tutta nei costumi, nelle acconciature, negli accessori delle donne, Rosario Dawson in primis ma anche la Alba che cambia tante vesti quante Simona Ventura a Sanremo. Del cast stellare si ricordano soprattuto i camei: non solo quello di Lady Gaga, un po' insipido, ma che riprende il fu Machete, ma anche quello di Juno Temple, inaspettato, un'attrice che si sta costruendo un percorso bizzarro ma coerente (vedere Killer Joe per credere e ricredersi su questo film).

lunedì 6 ottobre 2014

#findfrank

cazzo!, figa!, vaffanculo!



Pasolini
id., 2014, Belgio/ Francia/ Italia, 86 minuti
Regia: Abel Ferrara
Sceneggiatura originale: Maurizio Braucci
Soggetto: Abel Ferrara & Nicola Tranquillino
Cast: Willem Dafoe, Riccardo Scamarcio, Ninetto Davoli,
Valerio Mastandrea, Maria de Medeiros, Giada Colagrande, Luca Lionello
Voto: 6/ 10
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È già impensabile pensare di poter sintetizzare il pensiero o la vita di una personalità così complessa in un paio d'ore; non vengono approfonditi temi importanti come ad esempio il rapporto con la Chiesa, la democrazia cristiana, il comunismo italiano (ma essendo americano come può sentirlo o capirlo a fondo? – è difficile per gli italiani, figuriamoci per uno che viene dal Bronx). C'è soltanto un piccolo accenno iniziale, quando un francese chiede a P. se il sesso è politica e nel frattempo scorrono immagini de Le 120 Giornate Di Sodoma. E grazie. Tanti aspetti essenziali trattati in maniera superficiale e tanto spazio a dettagli o filoni marginali tranquillamente trascurabili. E ancora: quando si parla un po' del suo pensiero durante l'intervista (unico momento in cui lui ha qualcosa da dire effettivamente) non dice molto, chiede al giornalista di dargli tempo per scrivere; se si guardano un po' di interviste [fatte a Pasolini, ndr], di certo non gli manca la parola: sapeva esprimersi molto bene a voce. E poi due ore di scena dell'omicidio, troppo spazio ad un fatto che ancora oggi non è stato chiarito [...] e invece sembra davvero soltanto un intellettuale a cui piaceva andare con i ragazzini e una sera mentre s'imboscava gli è andata male. Così scrive Stefania Magli, una che di Pasolini ne sa sicuramente molto più di me – e se prendo in prestito le sue parole è proprio per questo, perché nel vedere un film del genere si rimane immobili, impotenti, ignoranti davanti a scene che non si sa come giudicare: sono fedeli alla realtà o meno?, al personaggio o alla persona? E poi, questo film-ascesa al paradiso che Pasolini aveva in cantiere, in questa trasposizione di Abel Ferrara, a Pasolini sarebbe piaciuta o no? Adesso, apparte tutto, la pellicola comparsa dal nulla e in concorso a Venezia è parsa un po' girata di fretta, scritta di fretta – e devo dire che questa aspettativa non è stata confermata durante la visione. Un pregio sicuramente ce l'ha: ed è l'essersi calato nel modus del suo protagonista e del suo modo di riprendere, soprattutto i volti, da vicino vicinissimo; le «interviste» a cui la Magli fa riferimento sono un esempio delle inquadrature tipiche che hanno fatto passare l'intellettuale, poeta, politico, narratore, regista, filosofo alla Storia, e il film pare volercele ridare fedelmente: la locandina (orrenda) ne è un esempio. Ma nel momento in cui si deve giudicare non più il prodotto filmico ma il suo intento, ecco che si vacilla. La presenza di Ninetto Davoli parrebbe rendere il tutto credibile: un attore che Pasolini lo conosceva sul serio, con cui ha lavorato per anni. Lo vediamo qui interpretato da Riccardo Scamarcio, che si affida al mutismo perché incapace (per sua stessa ammissione) di imitare il più anziano; Ninetto si ritaglia un grande cameo nel meta-film, un'operazione visionaria, felliniana, e non a caso mi è molto venuto in mente Che Strano Chiamarsi Federico, un tributo di un amico a un genio incontrastato, ahimè venuto male, che qui trova specchio ben più narrativo ma con la stessa punta di nostalgia, di rimembranza. La domanda è: è, Abel Ferrara, così visceralmente legato alla figura di PPP? La risposta non ci è data. Certamente, sempre come la Magli dice, la presa di posizione sul finale, sull'omicidio dell'uomo, che ancora resta senza un colpevole e con un ex carcerato che si dice innocente, pare troppo forte, troppo urlata, come urlata è questa omosessualità, ostentata, che vedeva ben più nascondigli nel quotidiano. Psicologicamente, la figura è scavata poco: la solitudine dell'intellettuale, il rapporto con la madre, l'estro creativo eclettico, che spazia su più strumenti... Willem Dafoe è però una buona fotocopia fisica, somigliante ma non troppo e con addosso lo sforzo del dialogo in italiano. Peccato per le scenografie (e qui si vede la fretta), dove gli anni '70 si perdono completamente, per ritrovarsi sui costumi e qualche capigliatura. Brave anche le comparse. Ma non si riesce ad aggiungere altro che non sia tecnico. Per cui: 6 politico.

giovedì 2 ottobre 2014

i love your wall.



Frank
id., 2014, UK/ Irlanda, 95 minuti
Regia: Leonard Abrahamson
Sceneggiatura originale: Jon Ronson & Peter Straughan
Cast: Domhnall Gleeson, Michael Fassbender, Maggie Gyllenhaal,
Scoot McNairy, Carla Azar, François Civil
Voto: 7.8/ 10
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A dimostrazione del fatto che l'ispirazione artistica giunge da ogni cosa, Domhnall Gleeson aka Bill Weasly di Harry Potter aka un nuovo Ed Sheeran red and british and musician partorisce versi che si canta nella testa a partire dal volantino di una band che suona in città, un vecchio col cane incontrato per strada, un tentato auto-annegamento in mare a cui assiste. Torna a casa, si registra, ma il motivetto sembra perso d'ispirazione, l'idea buona è volata, il ritmo perso, la musica sbiadita. Per un fortuito caso a cui ho accennato prima, s'imbatte pure nel furgoncino di questo gruppo dal nome impronunciabile il cui tastierista ha dato di matto. Dice repentino: «suono la tastiera anche io», vergognandosi dell'irruenza dimostrata nel quasi-luttuoso momento della band. Ma questi lo pigliano, necessitando di dieci dita la sera stessa, e lui suona in una performance flop che finisce prima ancora di cominciare. Se fossimo di quel tipo che chiede al primo appuntamento «che musica ascolti?» ci chiederemmo adesso: «che genere fanno?». Ma è un problema che non affrontiamo, perché, come per Björk, il genere è evanescente e, sempre come Björk, si costruiscono i propri strumenti, appositamente per un album, come anche facevano i Micachu prima che la leader musicasse Under The Skin. Per cui, piaciuto al gruppo ma non troppo, Jon aka Domhnall Gleeson finisce nel loro furgoncino e in una specie di baita tra i boschi affittata per incidere il nuovo e primo album che si prefigura sperimentale, innovativo, cerebrale ma allo stesso tempo spontaneo, diciamo, nonsense. Preoccupatissimo per i tempi di registrazione, Jon ha un lavoro al quale dovrebbe tornare, una famiglia, ma la lode del film va al menefreghismo con cui affronta questi aspetti razionali e narrativi: il tempo che i cinque trascorrono nella baita basta a far crescere una folta barba al protagonista senza specificare la sua età (della barba), e a far nascere un'intesa malvista fra lui e il frontman del gruppo, il Frank del titolo, la cui faccia è costantemente celata da un mascherone che oltre alla copertina si trova dovunque: nella doccia, nel letto. Nessuno ha mai visto il suo volto e si mormora di una malattia mentale, un manicomio, anche se nessuno dei componenti del gruppo pare normale: uno parla in francese costantemente e un'altra, e cioè Maggie Gyllenhaal, si accovaccia nei prati a muovere le mani per captare i suoni dello spazio di cui si nutre e che produce. Frank invece passa dall'improvvisazione acustica alla follia pura dei testi-filastrocca, del discorso dell'assurdo, con cui riempie questi vomiti di sonorità per pochi eletti. Jon propone: ma se facessimo un genere più orecchiabile?, e questa domanda, insieme alla loro fama virtuale, sarà l'inizio della fine. Internet è infatti presentissimo: Twitter e YouTube sono i canali con cui Jon registra e condivide le esperienze esoteriche della foresta. La piccola fama che si forma sottolinea il caso con cui oggi ascendono e decadono certe star-per-un-giorno o per-poco-tempo. A questo si aggiunge il sempre attuale desiderio di sfondare, che alla Gyllenhaal manca del tutto e di cui Frank è vittima, e di fare arte anche quando non se ne ha il dono, o l'esigenza. Dietro al mascherone si nasconde un ispirato Michael Fassbender provetto canterino che eleva il film a livelli ancora migliori: niente splendori per particolari bizzarrie tecniche o geniali trovate (carucci i titoli di coda); la colonna sonora è però pazzesca – per chi ama la tipologia – e il brano di chiusura sarà un ottimo intruso nella cinquina delle canzoni originali degli Oscar.