venerdì 7 novembre 2014

gemma di bambù.



La Storia Della Principessa Splendente
Kaguyahime No Monogatari, 2013, Giappone, 137 minuti
Regia: Isao Takahata
Sceneggiatura non originale: Isao Takahata, Riko Sakaguchi
Voci originali: Aki Asakura, Takeo Chii, Kengo Kora, Nobuko Miyamoto
Voci italiane: Lucrezia Marricchi, Carlo Valli, Flavio Aquilone
Chiara Fabiano, Chiara Salerno, Giorgio Borghetti
Voto: 8.2/ 10
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L'anziano tagliabambù Okina si imbatte, in un giorno d'inverno, in una sorta di gemma all'interno di un fusto che, alla seconda occhiata, prende sembianze umane, e poi antropomorfe, estremamente piccina: la porta a casa dall'anziana moglie e, privi di figli, decidono di tenerla ed accudirla: l'infante-Pollicina cresce, cresce fino ad essere una vera neonata. Seguiranno le più dolci scene dedicate alla prima infanzia che il cinema ci abbia mai dato: la vita quotidiana e casalinga, i primi passi, le prime smorfie, i nudi iniziali privi di malizia, le generazioni precedenti che bivaccano in giardino. Le dànno il nome di Principessa ma attenzione: in lingua originale è Kaguya, letteralmente Notte Splendente, censurato chissà perché. Cresce e aiuta il padre nei lavori di casa e ha come sempei (chiamiamolo patrigno) il “fratellone” Sutemaru, da cui si staccherà per proseguire il suo percorso da principessa dopo che il padre avrà trovato in un bambù un'ampia quantità di oro. Il cielo pretende che la piccola faccia vita reale, si trasferiscono in città, con l'oro comprano una sontuosa residenza e in autunno traslocano: Kaguya diventa Principessa Splendente, e in tutta la capitale si mormora della sua estrema bellezza. Cinque principi si presenteranno al suo cospetto (nascosto) per chiederle la mano, paragonandola a cinque tesori preziosi e inarrivabili – e lei pretenderà di riceverli in cambio della concessione in sposa. Sa di non poterli ottenere: per anni si ribella alla regola per cui una donna di alto ceto deve essere scelta da un uomo che non la vede nemmeno e gli si concede interamente, divenendone proprietà. È, la sua, una volontà di emancipazione altissima, di orgoglio femminile, ribellione: spezza con la tradizione di cui questa storia fa parte, antico racconto popolare giapponese dal quale sono stati tratti numerosi adattamenti cinematografici; Isao Takahata ne trae una propria versione senza guardarsi alle spalle – in cantiere dal 2005, il film è stato annunciato solo nel 2012 con storyboard pronti da quasi due anni – ma soprattutto, ed è la prima qualità che emerge nel film, allontanandosi anch'egli dalla tradizione animata: non solo tridimensionale ma anche a due dimensioni, rinunciando alla perfezione stilistica, ai contorni puliti e ai colori pieni, al disegno tipico dello Studio Ghibli che firma questo lavoro: siamo di fronte a disegni approssimativi, abbozzati, contorni rozzi tracciati a carboncino ancora visibile, e riempimenti ad acquerello le cui macchie sono perfettamente visibili, i piani degli spazi sono fatti di carte messe una davanti all'altra... Eppure, sembra volerci dire il regista e il team che gli sta dietro, non manca niente: tutto è perfettamente comprensibile, le espressioni (le risate, i pianti frequenti, le smorfie infantili) limpidissime, e i paesaggi!, che meraviglia!, e le scene della tradizione giapponese, i costumi, gli esterni, che colori! Pare, questo, essere un film-manifesto – forse l'ultimo di Takahata – che vuole significare come resti sempre, alla base di un film, una storia da raccontare, che anche se attinge alla tradizione passata, è il modo di raccontarla che conta; e che nonostante il tempo passi, le tecniche antiche non è detto che perdano forza di fronte a quelle moderne.

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