sabato 31 gennaio 2015

l'elefante di Annibale.



Turner
Mr. Turner, 2014, UK/ Francia/ Germania, 150 minuti
Regia: Mike Leigh
Sceneggiatura originale: Mike Leigh
Cast: Timothy Spall, Paul Jesson, Dorothy Atkinson,
Marion Bailey, Karl Johnson, Ruth Sheen, Sandy Foster,
Amy Dawson, Lesley Manville, Martin Savage
Voto: 8/ 10
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Candidato a 4 Premi Oscar:
fotografia, scenografia, costumi, colonna sonora
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L'arte contemporanea si può così riassumere: Joseph Mallord William Turner con conseguenze, Marcel Duchamp con conseguenze. E molto prima che Marcel Duchamp abbandonasse la tela, William Turner «si congedava dalla forma», premonendo quello che avrebbero fatto gli impressionisti in seguito allo scoppio della fotografia e alla decadenza dell'arte accademica – ormai inutile rappresentazione del vero già rappresentabile. E il processo di anticipazione che ha portato Turner all'allontanamento delle barche vere, delle tempeste vere, è stato lento come il secolo in cui è vissuto, e puntellato da fattori umani che di volta in volta hanno contribuito a far esplodere l'impeto, a far emergere l'impulso, a superare lo scoglio. Ci viene presentato, all'inizio, come curioso esploratore di paesaggi, di mondi altri, sempre col taccuino in mano e sempre immerso nella natura quasi incontaminata illuminata dalla luce, dono del Signore che già produce metà dell'opera – ci viene poi presentato in un'altra veste, quella di figlio, figlio di William Turner sir., quasi devoto a un padre che è a lui devoto, una squadra vincente su più fronti, quello del commercio delle opere, quello della loro preparazione. E una domestica in casa, una «damigella», che nonostante la malattia all'epidermide galoppante sarà la testimone di tutta la narrazione. Turner ha due figlie che nasconde al mondo, non esige la solitudine per dipingere, considera quell'atto come l'ultimo di una lunga preparazione mentale; non vive nemmeno isolato dal mondo, anzi è socialmente inserito soprattutto nell'ambito pittorico, che gli riconosce il primordiale talento, fatta eccezione per quel Constable a cui viene data piccolissima parte e che rappresenta quel rivale “già battuto”, quel tentativo non completamente andato in porto di raggiungere gli stessi scopi. Timothy Spall vaga all'interno di paesaggi praticamente già dipinti, lavoro magistrale del direttore della fotografia Dick Pope (fedele al suo regista e già nominato all'Oscar per The Illusionist) che raggiunge vette cinematografiche esemplari, vaga alla ricerca di ispirazione continua soprattutto ora che la minaccia della camera sta incombendo su mestieri come il suo; vaga, grugnendo e borbottando e avendo amplessi come i maiali, alla ricerca di una trama che il film non ha, una vicenda narrativa burrascosa o sentimentale (eppure c'è una moglie teneramente conquistata) che il pubblico si aspetta, e che lo fa uscire dalla sala sospirando che «dal trailer sembrava più avvincente». Mike Leigh è un regista inglese sopraffino, accusato di andare sul set senza una vera sceneggiatura, di averci appena dato il minore dei suoi film – eppure all'interno di un percorso che spazia tra il passato e il presente, tra le famiglie e tutti gli altri tipi di relazione umana, tra le profonde depressioni e le felicità incontenibili, Mr. Turner trova il suo posto di animo pienamente analizzato, sviscerato dal profondo, e pretesto per raccontare una società che si muove più lentamente del suo spirito. Il pressappochismo della messa in scena è confutato dai movimenti di camera, dagli interni costruiti come nature morte, dai salotti, dai paesaggi cercati perché colossali. Eppure non si tratta di kolossal, non si tratta di un ampio budget; ma «eravamo ossessionati dai dettagli: i costumi (di Jaqueline Durran, Oscar per Anna Karenina, n.d.r.) sono repliche esatte del periodo e gli attori indossano perfino copie di mutande d'epoca». È curatissimo il linguaggio, è curato l'atteggiamento e il modo di dipingere di Spall, un atto viscerale, di cui sente l'esigenza anche colpito dalla polmonite, anche privato delle forze. Quello di Leigh è un profondo atto d'ammirazione verso un genio della sua terra e lo rende senza orpelli, senza romanzi. Ecco perché il pubblico in sala sbuffa dopo due ore: siamo lontani dagli alti e bassi di Frida o dai sentimentalismi alcolici de I Colori Dell'anima. Nella tradizione difficile, difficilissima della biografia d'artista, che quasi mai ha avuto ampio consenso (basti guardare ai due Caravaggio, al più recente film su Goya, a Big Eyes adesso in sala e ai futuri Mordecai ed Effie Gray), l'unico paragone che si può pescare è quel I Colori Della Passione, in originale The Mill And The Cross, che come questo si sforzava di rendere il mondo nel modo in cui il pittore lo guardava, di filtrare l'esterno attraverso i suoi occhi. Palma d'Oro al suo protagonista, che è il film, era già stato dimenticato e grazie a questi Oscar riportato alla luce.

venerdì 30 gennaio 2015

pane, amore e fantasia.



Gemma Bovery
id., 2014, Francia, 99 minuti
Regia: Anne Fontaine
Sceneggiatura non originale: Pascal Bonizer & Anne Fontaine
Basata sulla graphic noverl Gemma Bovery di Posy Simmonds
Cast: Fabrice Luchini, Gemma Arterton, Jason Flemyng,
Isabelle Candelier, Niels Schneider, Mel Raido, Elsa Zylberstein,
Pip Torrens, Kacey Mottet Klein, Edith Scob
Voto: 7.5/ 10
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Lei si chiama Gemma Bovery, e nessuno mai le ha fatto notare la straordinaria somiglianza col personaggio di Flaubert – annoiata dalla vita e forse anche dal marito restauratore si trasferisce nella campagna normanda cercando di adattarsi ai paesaggi coi topolini e l'acqua che piove in casa. Lui si chiama Martin Joubert, nato in Normandia e trasferito a Parigi e tornato in Normandia a fare il pane nell'azienda paterna dopo un lavoro d'insegnante che si è sedimentato sotto la pelle; è molto più annoiato di lei, dalla vita, al punto che qualsiasi spunto dalla realtà può trasformarsi nell'incipit di una storia di cui si autoproclama regista: un tradimento, un matrimonio in rovina, un altro tradimento. Sotto al nome, vede infatti i caratteri di Bovary Emma tutti dentro alla sua nuova vicina: che instaura una relazione adultera con un bel giovane locale, che ne ritrova un altro che pensava perduto ormai da tempo, mentre i debiti quasi la schiacciano... Martin, sposato e con un figlio che pensa solo ai videogiochi ma si rivelerà più arguto del previsto, interviene preoccupato dall'arsenico per topi, che nel celeberrimo romanzo fa altri morti. E per farla meglio... Ironia della sorte, Gemma Arterton interpreta un'altra protagonista di fumetto dopo essere stata Tamara Drewe nell'omonimo, grottesco, nonsense film di Stephen Frears – che è forse il più grottesco e nonsense film d'autore degli ultimi cinquant'anni – e la mano della disegnatrice è sempre la stessa, quella di Posy Simmonds, che dopo essersi cimentata con la cricca degli scrittori questa volta passa dall'altro polo e racconta dei lettori, quelli accaniti, quelli irrazionali. Fabrice Luchini è la vittima di questa malattia, sempre bravissimo, sempre da solo in grado di soddisfare il costo del biglietto. Per la riga finale delle recensioni, se vi è piaciuto guardate anche, si consiglia Molière In Bicicletta, con lo stesso protagonista maschile alle prese con un'altra ossessione letteraria, ma questa volta teatrale – ironia della sorte quel film e questo erano stati presentati felicemente in anteprima a Torino. Le commedie francesi (quella e questa) hanno una dote altissima: farsi contaminare dalla cultura, scorrere leggere lasciando il germe della Letteratura che le ha contaminate, che era Il Misantropo in quel caso ed è Madame Bovary in questo, in cui si cerca sempre il parallelismo con la narrazione flaubertiana, le somiglianze psicologiche, i risvolti drammatici. A questo si aggiunge una pudicizia e una messa in scena gentili, con scene di sesso, poche, sempre dai vestiti addosso, dalle vestaglie démodé che rendono la Arterton ancora più di quanto non sia; inquadrata nei punti giusti, nei momenti giusti, privata di volgarità dalla telecamera e di civetteria dal suo corpo, nell'unica scena drammatica che le concerne si dimostra anche molto capace, adatta al ruolo. Un'altro valore che i francesi hanno è il non impaurirsi davanti al plurilinguismo: un terzo della pellicola è infatti in inglese, senza sottotitoli – un po' perché non è necessario che si capisca, un po' perché si suppone ci si riesca. Dietro alla macchina da presa c'è Anne Fontaine: quella-di Two Mothers, disastro femminista sullo scambio di coppia tra due amiche storiche e i loro figli, con vent'anni di differenza generazionali. L'assurdità di quella trasposizione, che veniva da un libro di un Premio Nobel, che risultava in-credibile a causa anche dall'isolamento marittimo degli allegri fidanzati, rischia qui la stessa problematica geografica (vediamo solo un panificio, due case, una cattedrale), ma viene abilmente scansata dallo sceneggiatore de La Bella Scontrosa Pascal Bonizer, che gioca con la voce narrante, un diario ritrovato e qualche occhio alla camera per parlare direttamente col pubblico, senza infastidirlo. Un film luminoso, letteralmente.

SAG Awards 2015 - vincitori.



Con una Naomi Watts cadente ma non troppo, il cast di Birdman O (Le Imprevedibili Virtù Dell'ignoranza) ha ritirato l'ultimo Screen Actors Guild Award, il premio del sindacato degli attori americani – quasi a volersi scusare di non aver premiato Edward Norton, come ci saremmo aspettati qualche mese fa, prima che il J.K. Simmons di Whiplash gli rubasse, meritatamente, il trofeo, e soprattutto aver snobbato Michael Keaton, chiamato a ringraziare a nome di tutti, in favore dello Stephen Hawking di Eddie Redmayne, visibilmente sorpreso ed emozionato, ma subito pronto col discorso che ci si aspetta. Né sorpresa né emozionata Julianne Moore, la certezza di tutte le serate, presa poi di mira per il suo esordio, giunta finalmente al premio con un filmetto, peccato – e Patricia Arquette, potremmo dire, attricetta con un filmone, nel senso dimensionistico del termine. Boyhood non ritira il premio maggiore forse anche per il ridotto cast nonostante front-runner agli Oscar e set di dodici anni. Ma adesso le previsioni si ribaltano perché, considerando i premi dei sindacati come grandi anticipatori della statuetta d'oro, Birdman e La Teoria Del Tutto se la devono spareggiare – staremo a vedere in queste ultime due settimane di premiazioni. Nessun premio neanche per Grand Budapest Hotel, con una serie sconfinata di nomi, né per il tremendo The Imitation Game, gli altri super-favoriti dell'Academy. Sorprendono gli stunt di Unbroken, che hanno la meglio sui giocattoloni Marvel. Mark Ruffalo non porta a casa né a Foxcatcher il suo trofeo ma vince come miglior attore in un film TV per The Normal Heart – assente, gli canterà le lodi Julia Roberts. La lista dei vincitori per la televisione è sul sito ufficiale mentre di seguito, dopo l'interruzione, tutti i premi cinematografici.

performance
di un cast in un film
Birdman O (Le Imprevedibili Virtù Dell'ignoranza):
Zach Galifianakis, Michael Keaton, Edward Norton, Andrea Riseborough,
Amy Ryan, Emma Stone, Naomi Watts
Boyhood:
Patricia Arquetta, Ellar Coltrane, Ethan Hawke, and Lorelei Linklater
Grand Budapest Hotel:
F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Ralph Fiennes, Jeff Goldblum,
Harvey Keitel, Jude Law, Bill Murray, Edward Norton, Tony Revolori, Saorise Rona,
Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, and Owen Wilson
The Imitation Game:
Matthew Beard, Benedict Cumberbatch, Charles Dance, Matthew Goode,
Rory Kinnear, Keira Knightley, Allen Leech and Mark Strong
La Teoria Del Tutto:
Charlie Cox, Felicity Jones, Simon McBurney, Eddie Redmayne, David Thewlis, and Emily Watson

martedì 27 gennaio 2015

gnocchi a colazione.



Unbroken
id., 2014, USA, 137 minuti
Regia: Angelina Jolie
Sceneggiatura non originale: Joel Coen, Ethan Coen,
Richard LaGravenese e William Nicholson
Basata sul romanzo Sono Ancora Un Uomo. Una Storia Epica
Di Resistenza E Coraggio di Laura Hillenbrand (Mondadori)
Cast: Jack O'Connell, Domhnall Gleeson, Garrett Hedlun,
Takamasa Ishihara, Finn Wittrock, Jai Courtney,
Maddalena Ischiale, Vincenzo Amato, John D'Leo, Alex Russell
Voto: 6.3/ 10
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Candidato a 3 Premi Oscar:
fotografia, montaggio sonoro, mixaggio sonoro
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Altro biopic per «una storia vera», altre nominations all'Oscar, altra sceneggiatura non originale – scritta addirittura dai fratelli Coen, grandi esclusi dall'Academy, su cui si puntava per una nuova candidatura dato questo lavoro eccelso di portare sullo schermo un eroe di guerra americano nonostante le origini veronesi, addirittura sia bombardiere che atleta olimpico, ennesimo personaggio di cui andare fieri dopo l'american sniper Chris Kyle, il matematico inglese Alan Turing e il fisico Stephen Hawking – e se i british gentlemen si assomigliano per la messa in scena tradizionale, tutta musicata fino alla commozione, ben interpretata dai loro attori emergenti, gli americani hanno sempre questo pallino per la guerra, per i bombardamenti e i conflitti mondiali. Clint Eastwood aveva giocato col sonoro tenendoci per ultima la grande scena dell'ultima battaglia; i Coen invece cominciano col botto (chi ben comincia è a metà dell'opera anche dal punto di vista cronologico della narrazione), con questo attacco aereo prolungato e a più voci, da più angolazioni, mentre sotto scorre l'oceano: quell'oceano dove il nostro Louie passerà quasi un mese insieme a un compagno e mezzo, con l'acqua razionata, qualche pesce pescato da mangiare crudo, addirittura un pellicano da sventrare. La causa: un incidente e uno schianto dell'aereo su cui gestiva i mirini; ma il peggio deve ancora venire, perché quel gommone di salvataggio sarà intercettato dall'esercito giapponese che lo chiuderà nei campi di concentramento dove i soldati nemici ricevono «il trattamento che ci si aspetta in tempo di guerra». Bastonate, frustate, pugni dati dai compagni sotto costrizione, punizioni fisiche per puro sadismo; ma lui rimane sempre in piedi, sempre unbroken appunto, titolo che più banale non si poteva, lui ovvero Jack O'Connell che smessi i panni di James Cook in Skins si avvia ad essere l'attore dell'anno con questo e altri tre film in uscita, più uno in cantiere diretto da Terry Gilliam. Il lavoro sul suo corpo è notevole: belloccio in partenza, collegiale prima e atleta poi per sfuggire al bullismo dei compagni americani, dalle braccia toniche e dagli occhi di ghiaccio, si consumerà per colpa del sole nelle acque del Pacifico e poi arriverà allo scheletrismo nella scena pomposa che dà immagine alla locandina, scavato in volto, emaciato. Eppure nessuna grande lode, né a lui né alla sua regista Angelina Jolie (titolo di un articolo su IMDb: Perché Gli Attori Credono Di Poter Dirigere?), che ha addirittura incontrato il Papa per questo lavoro. Donna tra le poche ad esplorare i terreni di guerra (ed è impossibile non citare il ben diverso approccio di Kathryn Bigelow), diciamo che senza particolare inventiva adempie al compito, che già aveva cercato di esorcizzare con In The Land Of Blood And Honey; viene in mente War Horse, insieme a tutti quegli altri film di guerra dolciastra, che come questo è sì storia vera e fedelmente raccontata ma talmente cinematografica da risultare ridondante. Eppure la cura e la minuzia è in tutto: nelle numerose scenografie ricostruite sia fisicamente sia digitalmente, negli effetti speciali e negli effetti sonori, e poi nella fotografia: il direttore della fotografia di questo film si chiama Roger Deakins e con questa giunge alla sua dodicesima nomination all'Oscar (parrebbe anche quella buona); Deakins, pittore della pellicola, feticcio dei fratelli Coen ma cinematographer anche per Le Ali Della Libertà, A Beautiful Mind e Skyfall, separa i toni caldi da quelli freddi relegando i primi al passato gioioso e i secondi alla contemporaneità più crudele. La storia comincia da metà, rivive in flashback la carriera olimpionica e ci prepara per quella militare e si conclude con le solite scritte di fondo, le solite immagini di repertorio di Louis Zamperini l'anno scorso, prima della morte, ancora in Giappone con la fiaccola. Nonostante i dialoghi italiani dei primi minuti, il ritratto è, come sempre, di un patriottismo americano nauseante.

vita delle farfalle.



Still Alice
id., 2014, USA/ Francia, 101 minuti
Regia: Richard Glatzer & Wash Westmoreland
Sceneggiatura non originale: Richard Glatzer & Wash Westmoreland
Basata sul romanzo Perdersi di Lisa Genova (Piemme)
Cast: Julianne Moore, Alec Baldwin, Kristen Stewart,
Kate Bosworth, Shane McRae, Hunter Parrish, Seth Gilliam
Voto: 6.7/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
attrice
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Alice compie cinquant'anni e la vita le brilla: una carriera eccellente coronata dall'insegnamento della Linguistica all'università, un marito altrettanto docente, un figlio neo-medico, una figlia laureata in Legge e vabbè, la pecora nera Kristen Stewart, che vorrebbe fare l'attrice e non studiare Arti Drammatiche, che vive fuori casa con coinquilini precari e si autofinanzia la compagnia teatrale, che sta scalando il cinema – quello vero – prima affianco a Juliette Binoche adesso affianco al prossimo Premio Oscar; compie cinquant'anni, dicevo, e si ritrova a dover cercare la ricetta del pudding di pane su internet, dall'iPhone, perché non se la ricorda; di correre per il campus e ad un tratto smarrirsi, perdersi, come dice il titolo della storia originale. Di formazione scientifica e col coniuge altrettanto preparato, vede un neurochirurgo che le diagnostica una forma rara, ereditaria e precoce di Alzheimer. Nota al testo numero uno: come si può buttare alle ortiche una vita così splendida, una condizione così positiva, una famiglia abbastanza serena, una carriera ancora ascendente? Come una punizione Alice si sente anche dire che «le persone con un'alta formazione sono vittime di un più veloce svilupparsi della malattia» e arriverà a desiderare di avere il cancro piuttosto, in modo da non ridursi a uno scherzo, a non essere ridicola, a riconoscersi in se stessa, a venire compatita e non schernita. Con l'ausilio della tecnologia che non le manca (si permette spesso pranzi e cene fuori, ha una casa al mare, lascia il lavoro) cerca di limitare o almeno tenere sotto controllo i danni del morbo: risponde ogni giorno a una serie di domande su se stessa, gioca con la figlia maggiore a una sorta di cruciverba online, si registra per darsi le istruzioni su come suicidarsi quando ormai la malattia avrà avuto la meglio sul suo raziocinio. Rivedrà il video – non sappiamo dopo quanto tempo, perché il tempo è diluitissimo durante tutta la pellicola che ci dà sporadici accenni delle stagioni in cui ci troviamo – e noi la vedremo cambiata, trasformata, ma la trasformazione è stata così lineare che non ce ne siamo accorti. Sempre bravissima, Julianne Moore, finalmente vincitrice della statuetta che spesso le è stata sottratta a discapito di emergenti poi scomparse – una statuetta che corona una carriera altrettanto brillante e non certo una pellicola particolarmente meritevole. Come il solito marito mèlo della protagonista ammalata (farebbe eccezione il più letale Away From Her), Alec Baldwin è sottotono – rispetto, per esempio, al 30 Rock che l'ha premiato in ogni fronte – e la messa in scena, la fotografia sempre luminosa, i vestiti composti, gli interni borghesi, tutto ricorda quel genere prossimo alle lacrime da pomeriggio televisivo nel fine-settimana, non un lavoro da premio Oscar; eppure i due registi e sceneggiatori a partire dal romanzo best-seller della Genova sono stati gli autori di Non È Peccato, all'anagrafe Quinceañera, film cult che si impose al Sundance e che toccava l'adolescenza e l'omosessualità con delicatezza e il giusto umorismo (erano stati anche registi di qualche filmetto, si direbbe, queer); questa volta senza assoluta originalità registica né testuale fanno ciò che si deve, e il tanto nominato fuori-fuoco per i momenti di smarrimento non è neanche così utilizzato. Nota al testo numero due: Richard Glatzer ha scoperto, avviato il progetto cinematografico, di essere ammalato di Sla: «la malattia gli impedisce l'uso della parola e il movimento» dice il compagno Wash Westmoreland, «ha diretto il film utilizzando un iPad, usando un solo dito, e questa sua determinazione ha regalato una motivazione in più a tutta la troupe». Nota al testo numero tre: chi conosce le dinamiche della malattia, le sue fasi, noterà la sensibilità e la fedeltà con cui sono state riportate. I due registi avevano già proposto un ruolo alla Moore che dopo due mesi rifiutò; in questo caso ha accettato dopo due giorni; ricerche sul morbo, improvvisazioni sul set – e all'orizzonte, l'omino d'oro: unico valore del costo del biglietto.

sabato 24 gennaio 2015

Benito Cereno.



Il Nome Del Figlio
id., 2015, Italia, 94 minuti
Regia: Francesca Archibugi
Sceneggiatura non originale: Francesco Piccolo & Francesca Archibugi
Basata sullo spettacolo Cena Tra Amici
di Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière
Cast: Alessandro Gassmann, Valeria Golino,
Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo, Micaela Ramazzotti,
Carolina Cetroli, Raffaele Vannoli, Giulia Salerno
Voto: 7.3/ 10
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Si comincia a singhiozzi: i ricordi di una grande villa soleggiata dove si era soliti passare le giornate tutti insieme, i preparativi per una cena imminente, una modesta scrittrice ospite in un programma radiofonico, le riprese rubate da un elicottero telecomandato da due bambini costretti al letto mentre «i grandi urlano», e una di questi due bambini è l'incompresa Giulia Salerno forse un filo meno brava del film precedente. Lei si chiama Scintilla, suo fratello si chiama Pin: il loro genitore insegnante di Lettere all'università ha sempre apprezzato questi nomi evocativi di altro, di altre opere, eppure resta di sasso quando l'amico di tutta la vita gli confida come chiamerà il bambino che la moglie porta in grembo. Andando con ordine: la moglie è Michaela Ramazzotti, la scrittrice burina de Le Notti Di Effe che con trecentomila copie vendute e metà delle battute non scritte da lei si fa ospitare nelle dirette per promuovere l'opera magna; il marito è Alessandro Gassmann, figlio di ebrei e abitante di quella villa accogliente che abbiamo visto nell'incipit, adesso agente immobiliare di cui molti parlano grazie al vasto capitale di denaro che gli permette, ad esempio, di potersi permettere champagne da novecento euro per cene in famiglia. La cuoca di questa cena è Valeria Golino, anch'ella insegnante ma alle scuole medie, divisa tra il lavoro e la grande casa nella periferia romana zeppa di stranieri di ogni tipo, ginnasta domenica senza il tempo per andare in palestra e quindi limitata ai saltelli, ai gradini, ai pesi fatti di vassoi. Suo marito, il docente universitario, è Luigi Lo Cascio, che con la Golino ha condiviso anche il set de Il Capitale Umano senza incontrarla mai, costretto anche questa volta alla parte del saputello con gli occhiali beffeggiato, intellettuale sinistroide furibondo, che ha trovato una propria dimensione nella seconda vita virtuale, in Twitter, a cui pensa costantemente sempre fermandosi al centoquarantesimo carattere. Sono loro i genitori di Scintilla e Pin e sono loro i primi a rimanere di sale scoprendo che il futuro nipote avrà un appellativo che non porterà onore alla rinomata famiglia Pontecorvo... E sebbene nel trailer, nelle promozioni radiofoniche, sui giornali si faccia altamente attenzione a non svelare quale sia questo nome, la vicenda si consuma presto, perché il nome del figlio è un pretesto per passare ad altro, per rinfacciarsi il passato, vomitarsi addosso i rancori tenuti nascosti per anni, urlare le proprie opinioni completamente privati dei filtri. Mai la tavola li vede seduti tutti insieme, il cibo non diventa mai importante; in ultima analisi si passa a Rocco Papaleo, l'amico di tutta la vita che si riteneva omosessuale, con il segreto che fa traboccare il vaso. La cinquina di attori è in stato di grazia: Gassmann è sorprendente di fianco alla Ramazzotti di cui non avevamo dubbi e su tutti la Golino, immensa. Quello che però non va nella commedia – molto ironica a tratti anche molto arguta – sono forse le tattiche che usa per arrivare all'ora e mezzo e venire considerato lungometraggio da cinema. I flashback delle gioventù di questi amici, i bambini nell'altra stanza che non riescono a dormire: privato di questo annacquamento il film forse risulterebbe molto più potente, immersivo, e allora non raggiungerebbe forse quei settanta minuti di Carnage che pure gli assomiglia molto, moltissimo: ma il materiale di partenza è Le Prenom, pièce teatrale da cui poi è derivato Cena Tra Amici, film di Alexandre de La Patèlliere depurato del depurabile (dalla regista e dal comunista Premio Strega Francesco Piccolo che inserisce il suo libro su un divano in una scena) e puntellato di riferimenti italici quali Telefonami Tra Vent'anni di Lucio Dalla, canzone che accompagna il momento massimo di affiatamento fra gli attori, canzone amata dalla Archibugi che «ha scritto la scena esattamente in quel modo, non è stata improvvisata»; ed è allora doveroso l'inchino al senso che ci lascia in bocca: di una nostalgia non nostra, di un senso di non appartenenza. Ma poi, lo scivolone finale: l'utilizzo dei filmini privati di un'attrice che con l'ultimo colpo di scena mette su schermo un altro componente della famiglia cinematografica.

venerdì 23 gennaio 2015

Genesi.



Il Sale Della Terra
The Salt Of The Earth, 2014, Francia/ Brasile/ Italia, 110 minuti
Regia: Wim Wenders & Juliano Ribeiro Salgado
Sceneggiatura: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado,
David Rosier e Camille Delafon
Cast: Sebastião Salgado, Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgadom,
Hugo Barbier, Jacques Barthélémy, Lélia Wanick Salgado
Voto: 7.7/ 10
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Candidato a un Premio Oscar:
film documentario
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Nato in quei campi brasiliani lungamente colpiti dalla siccità, nel 1944, e di formazione originariamente economista (che gli servirà poi a capire, nei vari Paesi che toccherà, cos'è che fa girare il mondo), Sebastião Salgado decise di diventare fotografo dopo una prima missione in Africa, che oltre alla fotografia lo spinse all'attivismo sociale, due ambiti che riesce per tutta la vita a far andare di pari passo. Il Sahel colpito dall'incoltivabilità delle terra, l'Europa intera degli immigrati e il Portogallo sotto rivoluzione, la guerra coloniale in Angola e Mozambico ma soprattutto l'America latina natìa delle campagne. Salgado dedica, concede, consacra mesi, se sono necessari addirittura anni ai suoi reportage, che lo spingono verso le parti più nascoste e dimenticate del mondo, che lo strappano dalla moglie Leila Wanick con cui crea nel '94 una struttura autonoma staccandosi dalla Magnum, con cui pianifica i progetti, stila le tappe dei viaggi, organizza ed allestisce le mostre prima dei cataloghi. Una donna compagna e collega e comprensiva verso questi interminabili viaggi durante la sua gravidanza e la crescita del loro figlio: quel Juliano Ribeiro Salgado che adesso è dietro la macchina da presa insieme per coronare una carriera ma soprattutto una persona e la sua instancabile sete di attività. All'incessante lavoro di documentazione sociale attraverso le immagini (sempre rigorosamente in bianco e nero), infatti, la coppia ha anche trovato il tempo di ri-fertilizzare le distese secche della tenuta brasiliana creando una foresta immensa diventata adesso luogo di visita per i turisti e metodo da replicare sulle terre confinanti. Wim Wenders aveva comprato una foto di Salgado senza conoscerne la provenienza e l'aveva appesa nel suo ufficio: punto di partenza per un'ammirazione e un approfondimento che arrivano a questo documentario con la visibile stima e il rispetto che il regista nutre per il suo personaggio. Lo mette davanti alla telecamera e lo lascia parlare, raramente interviene; fa parlare lui e le sue foto che sono per gran parte l'unica fonte visiva che può accompagnare quei racconti: la condizione dei lavoratori, la flora e la fauna incontaminati in alcune parti del mondo e infine la Polinesia a colori dove seguiamo l'artista mentre svolge il suo lavoro. È larghissimo il divario che separa questo dal documentario precedente Pina, altra celebrazione di un'altra arte e di un'altra artista del Novecento, Pina Bausch: in quel caso si taceva per far parlare l'operato, ricostruito e ricontestualizzato dagli allievi della maestra, come se fosse la scaletta di uno spettacolo. Qui si va in ordine cronologico e si lasciano grandi parentesi aperte su problemi mai approfonditi del mondo contemporaneo, popolazioni in condizione di vita estreme, episodi omessi dalle cronache – denunce sempre composte e mai urlate, fiere ed eleganti nelle proprie immagini. È curioso anche che in gara per lo stesso Oscar ci sia quest'anno un altro documentario su un'altra fotografa, diversissimo, opposto a questo: un po' perché Vivian Maier non è più viva, e si è costretti a ricostruire la sua vita per bocche altrui; un po' perché mentre Salgado dedica il proprio obiettivo al più disteso fuori, la Maier fotografa per sé, nasconde i negativi, si limita al territorio urbano, cittadino, del focolare, del paesaggio imminente, è ironica nel riportare fedelmente le storie della strada e dei suoi abitanti ma non ha mai altri fini, non ha proprio finalità, non ha lasciato niente, né mostre né cataloghi, non ci pensa: mentre Salgado lavora per progetti pianificati, fino all'ultimo, il più ambizioso, di riportare l'umanità alla sua Genesi.

i semi oleosi.



Hungry Hearts
id., 2014, Italia, 109 minuti
Regia: Saverio Costanzo
Sceneggiatura non originale: Saverio Costanzo
Basata sul romanzo Il Bambino Indaco di Marco Franzoso (Einaudi)
Cast: Alba Rohrwacher, Adam Driver, Roberta Maxwell
Voto: 7.4/ 10
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Con un incipit sul defecare umano che ricorda da lontan(issim)o quello de Le Meraviglie dell'altra Rohrwacher, entriamo nel bagno del ristorante cinese dove tutto ebbe inizio, dove Jude incontra Mina, immigrata negli Stati Uniti e operatrice all'ambasciata, italiana di nascita e rimasta senza nessuno, senza la madre morta quando lei aveva due anni e senza il padre, ormai molto anziano, a cui non ha «molto da dire». Restano chiusi in bagno per il pianosequenza fisso iniziale, in cui scopriamo anche che lui è ingegnere e conosce l'inizio de La Divina Commedia come probabilmente gran parte degli americani senza sapere cosa dicano. Che peccato non poterlo vedere nella lingua originale, che è l'inglese, in cui è stato proiettato a Venezia e in cui Adam Driver canta poi Tu Si' 'Na Cosa Grande il giorno delle nozze, che è imminente, assecondando la lezione hitchcockiana che il cinema è la vita con le parti noiose tagliate. Qui si taglia tutto senza pietà e senza rancori: il corteggiamento, le prime volte: vediamo il fatidico rapporto che porta Mina alla gravidanza e poi la vita insieme, durante quella gestazione, in cui lei perde l'appetito forse a causa delle nausee mattutine e lui, bruciato dall'amore, si preoccupa della sottonutrizione di lei e del bambino senza essere invadente. «I dottori non sentono quello che vedono, quello che sento io» dice più spesso lei, decisa a non ingurgitare carne, a non mangiare proprio, a coltivare piantine nella mini-serra sul terrazzo newyorkese e a non vedere medici e dottori e nessun altro, non uscire da casa per non farsi contaminare, non volere il cesareo. Si parla – come da sopra – dell'abusatissimo Hitchcock ma più ancora della claustrofobia dell'ultimo Polanski e della sua Rosemary, meglio ancora delle donne folli (non pazze) di Cassavetes; solita esigenza di paragonare registi e personaggi ma tanto di cappello a Saverio Costanzo che raggiunge, soprattutto all'estero, questi nomi da cinema. Trasporta su pellicola la storia di Marco Franzoso Il Bambino Indaco, spinto spintissimo dalla sua casa editrice Einaudi qualche tempo fa – ma, consapevole di quanto sia perfida la città di New York, dove «se hai soldi puoi mangiare il cibo migliore del mondo ma se non te lo puoi permettere sei costretto alle schifezze», sposta l'ambientazione dalla Padova originale e cambia la nazionalità del coniuge maschio. Alba Rohrwacher (di lui compagna anche nella vita) diventa quindi la sua protagonista impazzita, irrazionale, maniaca dell'autocontrollo del suo corpo e di quello del suo bambino incapace di autogestirsi, spaventata dalle minacce esterne, chiusa in se stessa e nelle proprie arcaiche convinzioni: diventa vegana, taglia l'avocado: mai periodo fu più azzeccato per questo tema, per il ribaltamento generale delle generazioni anni '80 sinistroide che rinunciano alla carne e ai suoi derivati, che combattono l'Expo e il suo nutrire il pianeta, che parlano di veleno in ciò che mangiamo – e per affrontare questi temi (di spavento, isolamento, tensione evolutiva) utilizza (e da qui i grandi nomi) le tecniche che sono dei film thriller, la musica che passa dalla banalotta What A Feeling alle agghiaccianti poche note di Nicola Piovani, e i grandangoli, gli occhi di pesce, i distorsori su queste immagini dalla grana grossa e visibile, le inquadrature dall'alto estremo o dall'estremo basso e soprattutto da vicinissimo per rendere questo dramma umano, questa lotta a due – che sono due quasi tutto il tempo, quasi tutto il tempo in una casa, fino al peggiore degli epiloghi possibili. Per le menti più profonde, anche una riflessione sull'amore materno e sull'istinto di protezione ribaltato, sulla capacità involontaria di fare del male a una creatura partorita invece di fare del bene impulsivo, come si supporrebbe. E succede una cosa che succede spesso in questi casi, che esce un film, magari girato a bassissimo budget come questo, completamente indipendente, fresco di due Coppe Volpi ai due attori che si sobbarcano l'intera sceneggiatura, e si va a rivangare la filmografia del regista, seppur misera, e seppur miseramente girata in Italia(no): e si riesuma quella Solitudine Dei Numeri Primi che, dirò, era stata anche meglio del libro di partenza, che esasperava le parti come l'arredo della stanza in cui la Rohrwacher viveva: anche in quel film c'era lei e c'era un problema alimentare, sempre di mal- e sotto-nutrizione, ma ribaltato. In quel caso il corpo era una scatola che si rifuggiva e in questo invece una gabbia da proteggere perché contenitore di un'anima che, veggente prevedendo, ha contenuto un bambino indaco da preservare – ma questo, sempre per le menti più profonde.

venerdì 16 gennaio 2015

Oscar 2015 - nominations.



Sono state annunciate in diretta live stream le nominations agli 87esimi Academy of Motion Picture Arts & Sciences Awards, i premi Oscar per l'anno solare 2014, per la prima volta con quattro “conduttori” – la direttrice dell'Academy Cheryl Boone Isaacs, Chris Pine, Alfonso Cuarón e J.J. Abrams – che hanno dato per la prima volta l'elenco completo dei candidati nelle 24 categorie in due tempi. Birdman e Grand Budapest Hotel conducono il gioco con 9 nominations a testa, solo che Birdman ha dalla sua tre attori – ma invece di parlare di chi c'è, come al solito, parliamo di chi manca. Già che siamo in tema: manca la colonna sonora di Antonio Sanchez, sempre per il film di Iñárritu, categoria in cui la lacuna maggiore è per la Mica Levi di Under The Skin, rimasto a bocca asciutta. Come quasi a bocca asciutta inaspettatamente è Gone Girl: anche qui niente colonna sonora, niente sceneggiatura adattata, niente regia né montaggio; solo la performance di Rosamunde Pike per un film che, all'uscita, era quotato come un arraffatutto. Arraffano tutto The Imitation Game, 8 candidature regalate – a partire da Keira Knightley considerata non protagonista, che si scontra a sorpresa con Laura Dern per Wild (dopo i due attori di Dallas Buyers Club Jean-Marc Vallée vede schierarsi questa attrice e Reese Witherspoon), la sorpresa più grande forse insieme a Bradley Cooper terzo anno di fila miglior attore (per colpa sua non c'è il buon Jake Gyllenhaal de Lo Sciacallo, né c'è la sua co-star Rene Russo; ma il film ha la nomination alla sceneggiatura) (settima volta, invece, per Robert Duvall, dopo Il Padrino e Apocalypse Now – erano quindici anni che non veniva considerato), con American Sniper quotatissimo più delle aspettative, anch'esso a 6 nomine. Al contrario, perde quota Selma, ridicolmente ridotto a due candidature: la splendida canzone originale e addirittura il miglior film. Nella canzone fanno capolino Adam Levine per Tutto Può Cambiare, Rita Ora per Beyond The Lights e i Lego di Everything Is AWESOME!!! che anche qui, come ai Golden Globes, non si vedono candidati al film d'animazione; c'è però come previsto la Principessa Splendente, insieme al tenero Song Of The Sea del già candidato (per The Secret Of Kells) Tomm Moore. Sono felicissimo (e attenzione uso la prima persona) per Whiplash, finalmente un film che non ci racconta dell'America (leggi: Boyhood – che resta il capofila, nonostante le sole 6 nominations), dell'americanismo (leggi: Clint Eastwood), o di un genio sepolto di cui c'eravamo dimenticati – eppure la sua viene considerata sceneggiatura non originale visto che è il rifacimento di un corto (oltre a quella, 4 nomine); finalmente un film per tutti e per pochi, e sono felicissimo anche per Marion Cotillard, fino alla fine ultima speranza di vedere Due Giorni, Una Notte e la sua immensa performance sotto giudizio dell'Academy dopo la dimenticanza nella shortlist del miglior film straniero. Niente sorprese invece qua: Ida adesso se la vede con Leviathan e forse incuriosisce Storie Pazzesche al posto di Turist ma all'Argentina va sempre bene (leggi: Il Segreto Dei Suoi Occhi). Se la vede bene anche Foxcatcher (5 candidature, Steve Carrell surclassato ad attore protagonista e Mark Ruffalo che arriva alla seconda volta dopo I Ragazzi Stanno Bene) e senza preavviso il Mr. Turner di Mike Leigh, che non vede Timoty Spall nella cinquina degli interpreti ma altre 4 nominations artistiche, tra cui la colonna sonora, dove fa doppietta Alexandre Desplat nella tiritera dei soliti nomi – e chiudiamo il cerchio. Qui il sito ufficiale mentre di seguito tutti i candidati di tutte le categorie; la cerimonia di premiazione si svolgerà la notte del 22 febbraio in diretta sulla Abc e su Sky Cinema.

film
American Sniper prodotto da Clint Eastwood, Robert Lorenz, Andrew Lazar, Bradley Cooper e Peter Morgan
Birdman o (Le Imprevedibili Virtù Dell'ignoranza) prodotto da Alejandro G. Iñárritu,
John Lesher e James W. Skotchdopole
Boyhood prodotto da Richard Linklater e Cathleen Sutherland
Grand Budapest Hotel prodotto da Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales e Jeremy Dawson
The Imitation Game prodotto da Nora Grossman, Ido Ostrowsky e Teddy Schwarzman
Selma prodotto da Christian Colson, Oprah Winfrey, Dede Gardner e Jeremy Kleiner
La Teoria Del Tutto prodotto da Tim Bevan, Eric Fellner, Lisa Bruce e Anthony McCarten
Whiplash prodotto da Jason Blum, Helen Estabrook e David Lancaster

giovedì 15 gennaio 2015

jazz caldo.



Whiplash
id., 2014, USA, 107 minuti
Regia: Damien Chazelle
Sceneggiatura originale: Damien Chazelle
Cast: Miles Teller, J.K. Simmons, Paul Reiser, Melissa Benoist,
Chris Mulkey, Susanne Spoke, Charlie Ian, Jayson Blair, C.J. Vana
Voto: 8.9/ 10
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Nell'isolamento di una sala prove all'interno della più esclusiva e prestigiosa scuola di musica di New York – e, quindi, più esclusiva e prestigiosa del mondo – Andrew vede piombare nella stanza il dispotico Terence Fletcher, che gli domanda: «sai chi sono io?» (e per gran parte del film non lo sapremo noi), «sai che sto cercando nuovi musicisti?». Basteranno una manciata di secondi, meno di dieci, a far tornare Fletcher da dov'era venuto, e ancora meno tempo gli basterà per esaminare tutti i componenti delle varie bande e orchestre dell'istituto. Al secondo tentativo, la scelta ricadrà su Andrew: ma non sarà impresa facile. Peggio di un addestramento militare la sfida a piacere al proprio insegnante si mischierà a una volontà di perfezione quasi letale e alla perdita della razionalità, fino a suonare forzatamente in condizioni quasi precarie, fino a vendette servite estremamente fredde. Andrew suona la batteria, e suona la batteria per far del jazz – un genere e uno strumento ignorati dai più; eppure Whiplash pare parli un linguaggio universali, parli di più e a più gente, sottostando ai dettami del thriller e ai taglienti effetti sonori dell'horror, con un protagonista da teen movie e un antagonista da nostalgici del conservatorio. Incredibile come tutti gli ingredienti stiano al loro posto, a partire dall'immenso J.K. Simmons davanti al quale ci si chiede più volte quanta abilità musicale avesse prima dell'inizio delle riprese (estrema la naturalezza con cui muove le mani davanti agli strumenti, con cui vomita una serie di insulti omofobi, denigratori, politicamente scorrettissimi ai suoi studenti); azzeccato anche Miles Teller, il simpatico-più-che-belloccio amico di Zac Efron in Quel Momento Imbarazzante, il demolitore di abitazioni festaiole in Project X, che ritorna al film d'autore dopo esserci passato anni fa con Rabbit Hole – anche davanti a lui, alla velocità con cui muove le bacchette sul kit, alla posizione delle braccia e delle gambe, ci si domanda se sia effettivamente un musicista; ma tutto questo non deve sorprendere se si analizza la maniacalità con lui l'impatto musicale è stato studiato e messo in scena, dai suoni di tutti gli strumenti alla scaletta dei brani conosciuti solo a una ristretta cerchia. Il miglior film musicale dell'anno senza dubbio, che se la deve vedere con l'altro diversissimo film musicale dell'anno, Frank: e se Frank racconta di un'ispirazione che non viene, di un'arte che non c'è, un talento che si forza, Whiplash dimostra che è la pratica che ottiene la tecnica che ottiene molto, se non tutto. I musicisti di Frank si chiudono in una baita, isolati dal mondo, a improvvisare musica sperimentale per un disco di cui non hanno pianificato neanche una traccia; quelli di Whiplash si dimenticano anche che il mondo fuori esiste e rimangono, col direttore d'orchestra, a provare fino alle due di notte se necessario, sotto i colpi di frusta del titolo e del brano principale, a provare anche un solo secondo del pezzo. Andrew è l'emblema di ciò, l'estremo assoluto: si vanta di non avere amici, come i grandi nomi della musica (i grandi veri che sono ben lontani dai grandi celebrati in Step Up, in Glee...), rinuncia alla ragazza con cui sta uscendo, suona la batteria fino a dover infilare le mani pregne di sangue nelle brocche di ghiaccio. Costruito quindi come un thriller, dalla tensione estrema e dall'attenzione che ci inchioda alla sedia fino all'ultima scena, riporta alla mente quel sotto-genere cinematografico-musicale, lontanissimo da Il Concerto e vicino a Grand Piano che l'anno scorso ha chiuso il Festival di Torino (in italiano: Il Ricatto). Non è un caso: Damien Chazelle era sceneggiatore di quella pellicola con la macchina da presa ceduta a Eugenio Mira – fu un piccolo massacro di critica, per cui adesso impugna il suo copione e se lo dirige da solo: e in che modo! Una scena, e dico “il tamponamento” per non anticipare troppo, dimostra la maturità registica che accidenti si perde in altre trovate e si comporta come di consueto nei primissimi piani ai piatti, alle bacchette, alle orecchie sudate, ai cerotti sui palmi. È un film claustrofobico di spazi chiusi e ristretti, di interni asettici e secchi, di dita, legnetti, labbra sui bocchini e spartiti, persone sole e isolate, rancori repressi – eppure tutto rimbomba.

mercoledì 14 gennaio 2015

Oscar 2015 - canzone originale.



Sarà difficile prevedere chi, tra l'epica Glory fresca di Golden Globe e celebrata perfino da Prince (di Common e John Legend, dal black-movie Selma a febbraio nelle nostre sale) e la bislacca Everything Is AWESOME!!! dei Lego avrà la meglio agli 87esimi Academy Awards più comunemente noti come Premi Oscar. Tra le 79 canzoni della shortlist che è stata annunciata qualche settimana fa i concorrenti più stretti sono la Patti Smith di Mercy Is (dal tremendo Noah), la sempre allegra Lana del Rey per Big Eyes e Lorde, curatrice della soundtrack celebrativa di Hunger Games 3.1 e autrice della canzone originale per quei titoli di coda, Yellow Flicker Beat. Niente da fare – pare – neanche quest'anno per Lo Hobbit, dopo la delusione l'anno scorso della splendida I See Fire. Niente da fare per la Disney, che schiera addirittura i Fall Out Boy dentro Big Hero 6 – ma sono Disney anche il già-premio-Oscar A.R. Rahman, Iggy Azalea e KT Tunstall per Million Dollar Arm e doprattutto la gang dei Muppets per Most Wanted, che contano – oltre a Miss Piggy, Kermit, l'alter-ego Constantine eccetera – Céline Dion, Ricky Gervais, Lady Gaga e Tony Bennet (ma il capolavoro Interrogation Song è fuori dalla corsa). Fu dei Muppets l'Oscar di due anni fa, quando i candidati erano solo due e i secondi erano gli uccelli tropicali di Rio; quest'anno Rio c'è ancora, con ben quattro brani in graduatoria, e speriamo non sia presagio di un altro distico. Molti gli altri film d'animazione: Il Libro Della Vita musicato dal due-volte-premio Oscar Gustavo Santaolalla, Boxtrolls dell'italiano Dario Marianelli (e a tal proposito ascoltate il pezzo Quattro Sabotino), il premaman The Hero Of Color City, Dragon Trainer 2, Mr. Peadboy & Sherman e Planes. Alanis Morisette canta The Morning dal piccolo film A Small Selection Of The World, i Coldplay il brano originale di Unbroken di Angelina Jolie, addirittura Liza Minelli viene riesumata per Garnet's Gold. Due le canzoni di Boyhood, entrambe di Ethan Hawke, e molte quelle dai romantic movie dell'anno (Colpa Delle Stelle, Un Amore Senza Fine, Resta Anche Domani); molte anche le incursioni indie, splendida America For Me di Alex Ebert per il sottovalutatissimo A Most Violent Year e Hal dal sopravvalutato Solo Gli Amanti Sopravvivono.
In regalo prima dell'annuncio delle nominations: lo streaming di 49 delle 79 canzoni in lizza per le candidature che saranno svelate alle 14:30 circa ora italiana. Di seguito il link alla playlist Spotify e dopo l'interruzione l'elenco completo dei titoli e dei rispettivi film.

Oscar14
Ascolta 49 delle 79 canzoni
in corsa per gli 87esimi Premi Oscar.

martedì 13 gennaio 2015

grandi speranze.



Big Eyes
id., 2014, USA, 106 minuti
Regia: Tim Burton
Sceneggiatura originale: Scott Alexander & Larry Karaszewski
Cast: Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Jason Schwartzman,
Danny Huston, Terence Stamp, Jon Polito, Elisabetta Fantone,
Guido Furlani, Delaney Raye, Madeleine Arthur
Voto: 5.5/ 10
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Esercizio cinematografico alla ricerca di una cifra stilistica: dov'è Tim Burton? Ce lo si chiede per tutto il tempo durante questo film, che è big solo nel titolo, nel senso che non è poi così lungo e soprattutto all'inizio avrebbe potuto esserlo, ritratto (passi il termine) di una donna che precocemente e «prima che fosse moda» prende la figlia e lascia il marito e si rifà una vita americana dove le gallerie d'arte espongono solo autori contemporanei, preferibilmente astrattisti. Dipinge per passione, per ispirazione «che viene da dentro», e dipinge soprattutto bambini, bambine, gatti, vengono chiamati “trovatelli” o, per sineddoche, “occhioni” – la motivazione a questa immensità non ci è mai data, se si esclude la banalissima trovata che gli occhi «sono lo specchio dell'anima»; per mantenere sé e la figlia dipinge decorazioni su testate di letti, poi alla domenica, col sole, fa i ritratti dei passanti per due dollari a offerta speciale, scendendo spesso a uno. Qui incontra Walter, estroverso pagliaccio figlio di buona donna, dai modi teatrali e dalle manie di grandezza; egli coglie la fragilità della donna e se la gioca fino a sposarla alle Hawaii, dove lei, come in un più celebre litigio, tornerà per modificare le vesti dei suoi soggetti. Si chiama Margaret Keane, se teniamo buono il cognome di questo secondo marito (ne avrà un terzo) e, tutt'ora viva, è stata una celebrata artista degli anni '50-'60, dopo che si è scoperto che era sua la firma delle opere. Perché, per trovata commerciale di Walter, le tele subiranno un pubblico cambio d'autore dal momento che «le artiste donne non vendono», e ciò che a Walter interessa è la vendita – non importa sotto che forma, al punto che inventerà, cosa latentemente primordiale in quegli anni, i gadget a partire dai quadri, i poster, le cartoline, per coprire un pubblico più vasto e meno abbiente. Non a caso viene citato Andy Warhol e non a caso Margaret mette nel carrello senza pensarci due volte la lattina di zuppa Campbell quando va a fare la spesa e vede, addosso alla gente che la circonda, le grandi iridi che dipinge. Siamo in una piccola visione ma non è una visione di Tim Burton, il visionario regista della locandina, come preannunciato: il regista dov'è? Nonostante siamo stati abituati ultimamente alle esplosioni di colori, di raffinatezze tessili, di scene (spesso digitali) ben costruite sia oniriche sia nostalgiche, dopo l'imbarazzante Alice e l'indigesto Sweenie Todd e il recente (e decente) Dark Shadows – e nonostante questo film abbia una effettiva raffinatezza nelle acconciature retrò, nelle macchine d'epoca, nelle carte da parati e nei vestitini per bimbi, esclusa qualche grottesca rappresentazione ad acrilico infantile non c'è niente che ci riconduca a un regista diventato adesso di cassetta e trito e ritrito nel solito impasto dark, nei soliti personaggi sposi cadaveri, i due soliti attori feticci. Non si sente però, attenzione!, l'assenza di tutte queste cose; si sente piuttosto una forzatura dietro, negli anni della maggior perdita di originalità di Hollywood, si sente una sceneggiatura furbescamente stesa, sotto dettatura degli stereotipi, una sceneggiatura da film per la televisione che Christoph Waltz amerebbe guardare. Si sente un eccessiva carica istrionica nell'attore europeo, che forse cerca di imitare il solito esagerato Johnny Depp, e invece si sentono pochissimo i toni di Amy Adams, nonostante il fresco Golden Globe, stretta nelle troppo poche scene, che avrebbe potuto far diventare questo un film sull'arte, un film sul femminismo emergente – mentre invece è un altro film storia-straordinariamente-vera su un matrimonio di mezzo secolo che vede lei ingenua, lui furbo, la giustizia finale. Si potrebbe paragonare sotto certi aspetti al contemporaneo Magic In The Moonlight: un bell'involucro estetico, un copione da esercitazione delle prime scuole, un regista messo dietro alla macchina da presa senza l'ispirazione «che viene da dentro».

domenica 11 gennaio 2015

Golden Globes 2015 - vincitori.


«One can get in trouble for saying anything these days, so I’m just going to say thank you». Con queste sole parole Billy Bob Thornton ha ricevuto il premio come miglior attore per Fargo, la miniserie che battendo True Detective ha portato a casa due trofei; si sono aperti con queste e con satirici riferimenti alle accuse di Bill Cosby e alla vicenda Sony-Columbia sugli attacchi virtuali subiti a causa del film The Interview i 72esimi Golden Globes, macchiati anche qua e là dalle politically correct standing ovations sulle attuali vicende parigine – ricordate dal presidente della Hollywood Foreign Press Association e da Jared Leto, prima che George Clooney ritirasse il Premio alla Carriera. Alla terza e ultima conduzione di fila, Tina Fey e Amy Poehler si sono fatte accompagnare da una finta rappresentante nord-coreana che ha minacciato nuove ripercussioni sul sistema cinematografico americano a meno che non fosse stata fotografata con Meryl Streep (ma è saltato dentro anche Benedict Cumberbatch). Entrambi questi due attori sono rimasti a bocca asciutta – non che la Streep abbia di questi problemi; a Cumberbutch è stato giustamente preferito Eddie Redmayne per la sua coinvolta e intensa interpretazione di Stephen Hawking ne La Teoria Del Tutto, che si aggiudica anche il premio alla colonna sonora di Jóhan Jóhanson. La canzone è per Selma, e la presenta a sorpresa Prince. Altre sorprese: il film d'animazione che non è Lego ma Dragon Trainer 2; il film straniero che non è Ida ma Leviathan; il miglior film comedy che non è Birdman ma Grand Budapest Hotel. (In realtà in questo caso Anderson e Iñárritu si scambiano i globes previsti a uno per la pellicola e all'altro per la sceneggiatura). Birdman vince anche per il miglior attore comedy, Michael Keaton, presentato da Amy Adams vincitrice nella stessa categoria l'anno scorso e quest'anno, per Big Eyes. Ma è prevedibilmente Boyhood ad avere la meglio: Richard Linklater e Patricia Arquette si fanno capofila del miglior film drammatico. Presenti in sala: Jennifer Lopez mezza nuda, Rosamunde Pike sfacciatamente a suo agio, Julianne Moore consapevole dell'Oscar imminente e Mark Ruffalo, doppiamente candidato come Bill Murray, ringraziato dal partner-on-screen Matt Bomer, miglior attore non protagonista in The Normal Heart. Qui il sito ufficiale, che include i premi per la televisione mentre di seguito, dopo l'interruzione, i candidati e i vincitori cinematografici.

miglior film
drama
Boyhood
Foxcatcher
The Imitation Game - L'enigma Di Un Genio
Selma
La Teoria Del Tutto

miglior film
comedy o musical
Birdman (O L'imprevedibile Virtù Dell'ignoranza)
Grand Budapest Hotel
Into The Woods
Pride
St. Vincent

Golden Globes 2015 - predictions.


vogliamo anche le rose.



Pride
id., 2014, UK, 120 minuti
Regia: Matthew Warchus
Sceneggiatura originale: Stephen Beresford
Cast: Ben Schnetzer, George MacKay, Faye Marsay, Joseph Gilgun,
Bill Nighy, Imelda Staunton, Dominic West, Andrew Scott,
Joshua Hill, Paddy Considine, Russel Tovey, Sophie Evans
Voto: 7.6/ 10
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Candidato a un Golden Globe (ma è il miglior film che ha incassato meno dei dieci) e fresco di tre nominations ai BAFTA (film inglese, debutto di un regista e un produttore, attrice non protagonista) – fresco anche delle polemiche sulla rimozione di ogni riferimento alla vicenda omosessuale dalla sinossi e dalla copertina del DVD americano appena uscito – Pride resiste nelle sale italiane festeggiando il milione di euro ottenuto nonostante la bassa distribuzione e le copie limitate (aumentate in corso di programmazione) e deve ringraziare soprattutto le festività su cui è cascato, il periodo giusto per le commedie. Perché nonostante il tema, storico e doloroso, ogni situazione è utile alla battuta in questo film; si ride, e si ride soprattutto quando il conservatore e isolato mondo gallese dei minatori e delle proprie mogli incontra i gusti musicali, tessili e sessuali della comunità GLBT di Londra. Siamo negli anni '80, quelli della Tatcher e della più lunga protesta dei lavoratori nella storia inglese. Per un anno gli uomini non sono scesi in miniera, dipendendo dalle compagne totalmente privi di virilità, organizzandosi in comunità per fornire il cibo necessario alla sopravvivenza, il gas per l'acqua per lavarsi. Parallelamente, prima che esploda il fenomeno dell'HIV, i gay e le lesbiche della capitale si riconosco nei maltrattamenti, nella mancanza di diritti di questi lavoratori sotterranei, e dimostrano il loro supporto con una raccolta di fondi e poi con delle trasferte cadenzate. Non sarà facile essere accettati, ma questo è pane quotidiano – il pane verso cui entrambi i gruppi marciano, il pane e le rose. E mentre la comunità si fonde in un'unico corteo, scorrono le singole vite una accanto all'altra: George MacKay attaccato alla sottana della madre, incapace di rivelare il proprio orientamento e succube di una vita di menzogne e coperture; Ben Schnetzer attivista dedito solo al miglioramento del mondo e dimentico dei problemi suoi e che l'ex fidanzato Russel Tovey (vedi alla voce: Looking) gli ha causato; Bill Nighy, primo caso clinicamente diagnosticato di HIV, tutt'ora vivo, il cui nome capeggia sulla locandina ben prima degli effettivi protagonisti; e poi ancora Faye Marsay unica perenne lesbica single del gruppo e Joseph Gilgun che ricicla il physique du rôle dans Misfits (ma con un paio di docce in più), cagnolino senza personalità che deve essere guidato dal suo leader. Vestiti con ciò che alcuni di noi adesso vanno a cercare tra le bancarelle dei mercatini e i negozi di vintage, all'interno di scenografie minuziosamente ricostruite (dai manifesti ai muri finanche alle lattine di birra), gli LGSM (Lesbiche & Gay Sostengono i Minatori) hanno contribuito a un pezzo di Storia e sono stati ricambiati nel fatidico giugno '85, climax della pellicola che pare dia il testimone a quell'altro film-ricostruzione di tre decadi fa, The Normal Heart: dove però il film TV di Ryan Murphy abbandonava tutti i patetismi (in realtà non proprio tutti), ogni coinvolgimento emotivo sentimentale e si dedicava anima e cuore, appunto, alla causa politica, sociale, della lotta contro l'HIV quando si pensava fosse un cancro per i gay – tutto urla, litigi, porte sbattute, sedie ribaltate – Pride sa giocare benissimo le carte della commedia senza il british humor, complice anche una nostalgica colonna sonora che sa bene quando deve mettere i pezzi giusti, una solita immensa Imelda Staunton da cercare sullo schermo quando è in secondo piano, sempre incredibilmente spontanea e reale, e una regia tradizionale che non aspira a molto (debutto non proprio vero di Matthew Warchus). Qui sta la forza del film: nel non prendersi eccessivamente sul serio, scherzare finché può, senza omettere (vedi alla voce: The Imitation Game, l'altro gay-friendly-movie di questa stagione) la parte dolorosa della storia, senza relegarla nelle didascalie finali ma raccontandola con fierezza, nei suoi alti e nei suoi bassi – perché se i minatori hanno perso e la Tatcher non c'è più, le difficoltà per riconoscere i diritti delle minoranze sono ancora gli stessi di trent'anni fa.

BAFTA 2015 - nominations.



Siccome tutto è sempre in funzione dei premi Oscar: i British Academy Film & Television Awards (also known as BAFTAs) sono serviti l'anno scorso a prevedere l'entrata di Christian Bale per American Hustle, Philomena come film e Sally Hawkins come attrice di Blue Jasmine negli allori della più famosa Academy americana, film e interpreti che prima erano fuori dalle previsioni. Si alza, per cui, l'attenzione quest'anno, ora che lo storico presentatore Sthephen Fry ha annunciato le 68esime candidature: Grand Budapest Hotel capofila della coda se ne sta in cima con ben 11 nominations (sorpresa: Ralph Phiennes candidato come attore), seguito da Birdman e La Teoria Del Tutto (dieci ciascuna) davanti al vergognoso The Imitation Game, con nove. Non manca però il futuro piglia-tutto Boyhood, candidato al Miglior Film, alla Regia e alla Sceneggiatura oltre che ai due interpreti non protagonisti, mentre Lo Sciacallo e Whiplash racimolano un po' di nominations inaspettate – inclusa una per il regista. Essendo inglesi e premiando l'industria inglese, non sorprende se compaiano spesso '71, Pride, addirittura Paddington oltre ad Under The Skin (meritatissima la sua incredibile colonna sonora); ma a questi si aggiunge Trash di Stephen Daldry – il regista di Billy Elliot, The Hours, The Reader – inspiegabilmente buttato nella categoria del Film Straniero. Non compaiono il tanto celebrato Selma (per un ritardo nella distribuzione inglese o per un basso interesse verso la Storia americana?) e l'Unbroken di Angelina Jolie che ha appena visto anche il Papa, mentre il candidato Mr. Turner non riconosce onori né al suo regista né al suo straordinario attore protagonista.
Presentati ancora una volta da Fry la sera dell'8 febbraio, i BAFTA premieranno anche la televisione inglese e internazionale. Qui il sito ufficiale mentre di seguito e dopo l'interruzione tutte le nominations cinematografiche.

miglior film
Birdman
Boyhood
Grand Budapest Hotel
The Imitation Game
La Teoria Del Tutto


miglior film inglese
'71
The Imitation Game
Paddington
Pride
La Teoria Del Tutto
Under The Skin


venerdì 9 gennaio 2015

io sono leggenda.



American Sniper
id., 2014, USA, 132 minuti
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura non originale: Jason Hall
Basata sul romanzo American Sniper di Chris Kyle (Mondadori)
Cast: Bradley Cooper, Sienna Miller, Luke Grimes, Jake McDorman,
Sammy Sheik, Erik Aude, Cory Hardrick, Eric Ladin, Jonathan Groff
Voto: 8/ 10
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160 morti confermate su 255 probabili – e lui per primo si domanda chi le abbia contate. Due soprannomi: Leggenda per l'esercito americano e Diavolo di Ramadi per gli iracheni. 180.000 dollari di taglia sulla sua testa. Chris Kyle è stato il più infallibile e letale cecchino d'America e già prima della sua morte avvenuta nel 2013 per mano di un reduce di guerra a cui stava prestando aiuto, la sua biografia era un bestseller. Da quella stessa biografia Bradley Cooper voleva trarci un film (è anche produttore) e la regia era stata affidata in un primo momento a Steven Spielberg, poi – com'era già successo per Flags Of Our Fathers – si è spostata su Clint Eastwood. Il regista 84enne torna, dopo lo strafalcione incommentabile di J. Edgar, sul war movie dopo quel film e la sua seconda metà Lettere Da Iwo Jima; è un modo di concepire la guerra tutto personale, soprattutto se la guerra in questione è quella che sfocia, deriva e causa l'11 settembre. Figlio di padre padrone, già da piccolo Chris viene addestrato a difendere la famiglia, il branco: non alla violenza gratuita né a soccombere ingiustamente. Con un fratello visibilmente più debole, è iniziato dal genitore all'arte della pistola e del fucile, alla caccia, e si accorge della propria buona mira. Cercherà di diventare un cowboy, simbolo e immagine del suo Texas, ma una fidanzata lasciva e il fratello errabondo lo porteranno ad arruolarsi per la patria: non nei Marines che siamo abituati a vedere ma nel ben più duro e selettivo squadrone dei SEALS. Duri addestramenti, insulti da parte dei superiori, compagni lavativi che tagliano la corda; Chris maturerà la convinzione di dover e voler difendere il proprio Paese così come il padre gli aveva insegnato, e questa cecità andrà a sfociare in tutti gli ambiti: quattro turni in Iraq per un totale di circa mille giorni in guerra e ogni ritorno a casa era segnato dall'assenteismo mentale, dall'angoscia delle granate, delle urla dei bambini, degli inseguimenti in macchina. Il film, meritatamente, vuole approfondire questo: il distacco e lo scontro tra le due vite di un soldato, che una volta tornato a fare il padre e il marito vede, non per colpa sua, la violenza dappertutto; e si sente codardo a non tornare al fronte, impotente davanti alle morti dei suoi compagni. Difficile non farsi venire alla mente The Hurt Locker: quello (diretto da una donna) era però un film su un disinnescatore di mine, che torna a casa e non riesce a contenere il bisogno del suo mestiere, che evita morti invece di procurarle. Chris Kyle invece è addestrato apposta: e dietro ogni colpo, dietro ogni colpo centrato, c'è dell'etica, anche se si tratta di donne e bambini. Abbandonando qualsiasi tipo di moralismo, i fucili e i morti e i servizi al telegiornale sono dati per la loro esigenza narrativa, senza spettacolarità né fomentazione: per questo sorprende, piacevolmente e non poco, la scena della battaglia finale – un tripudio di tecnicismi sul sonoro e sulla regia da bomba, appunto: tanto da ricordare l'altro film della Bigelow, il capolavoro contemporaneo Zero Dark Thirty, con i suoi venticinque minuti di pura maestria cinematografica. Un'altra caccia all'uomo ma in questo caso meno celebrata, perché chi non è al fronte non sa cosa voglia dire: e se l'intento di Eastwood era questo (rappresentare gli opposti guerra/ vita privata, fronte/ città natìa), la preoccupazione del protagonista Cooper stava tutta nella sua stazza: «sono abbastanza grosso?» chiedeva al resto del cast e alla vera moglie di Kyle, conosciuta all'anniversario della morte. Per il suo ruolo la scelta è caduta sulla dimenticata Sienna Miller: un'attrice che «non ne facesse una mera imitazione», si augurava Clint. E, salvata anche da un montaggio eccelso che evita i patetismi eccessivi, direi che ce l'ha fatta.

mercoledì 7 gennaio 2015

il calcolatore universale.



The Imitation Game
id., 2014, UK/ USA, 114 minuti
Regia: Morten Tyldum
Sceneggiatura non originale: Graham Moore
Basata sul romanzo Alan Turing. Storia Di Un Enigma
di Andrew Hodges (Bollati Boringhieri)
Cast: Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Matthew Goode,
Rory Kinnear, Allen Leech, Matthew Beard, Charles Dance,
Mark Strong, James Northcote, Tom Goodman-Hill, Steven Waddington
Voto: 5.7/ 10
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Agli albori della Seconda Guerra, il ventisettenne Alan Turing (che con alle spalle pubblicazioni e meriti non si considera un prodigio portando ad esempio i precursori più noti) viene chiamato da una segreta task force nell'esercito inglese a decrittare il codice intercettato con cui i tedeschi di Hitler si mandano informazioni riguardo agli attacchi imminenti, gli spostamenti delle armate, i progetti bellici. La macchina che fornisce i dati nell'indecodificabile codice si chiama Enigma guarda un po', e ogni giorno l'algoritmo del suo segreto cambia. I più esperti matematici, logicisti, statisti d'Inghilterra ci lavorano notte e giorno senza raggiungere mai traguardo, mentre la guerra fa incetta di civili e l'alleata Russia pretende informazioni. Con l'ordine di Churchill, Turing viene messo a capo di un team da lui selezionato attraverso un cruciverba da risolvere in sei minuti – quando il tempo necessario rasenta gli otto. Keira Knightley consegna il foglio compilato in poco più di cinque, e diviene effettivamente parte della cricca di cervelloni tutti maschi all'interno della quale inizierà la sua futura battaglia femminista, per i diritti paritari, nonostante sia indecoroso agli occhi dei genitori. Dall'altra parte Alan/ Benedict Cumberbatch, un pelo autistico e sprezzante del prossimo ma non in tutte le scene, si farà presto martire delle leggi omofobe dell'epoca, suicidato quarantenne sotto castrazione chimica, accusato ingiustamente e premeditatamente mentre la sua macchina dava le basi al moderno computer. Questa parte della storia, però, viene omessa: segregata nelle didascalie finali che, si sa, insieme alla voce fuori campo (che pure compare), rappresenta la debolezza di ogni sceneggiatore. Il duo – di attori e personaggi – affiatatissimo e in sintonia mentale, si fa paladino delle diversità e delle emarginazioni, del riscatto sociale e della meritocrazia, e a poco serve sottolineare quanto Turing sia stato genio incompreso, quanto l'Inghilterra sia colpevole d'omicidio (al punto che nel 2009 la regina Elisabetta si è pubblicamente scusata per quello che l'esercito britannico fece a un vero eroe di guerra, senza il quale il Conflitto avrebbe causato molti più morti). Se ne esce comunque tutti felici e contenti, senza risentimento verso l'omofobia né verso l'UK, appunto perché il copione decide di fermarsi a un pezzettino microscopico dell'accusa per atti osceni istigata da un furto senza ladro. Il celebratissimo lavoro dell'ex sconosciuto Graham Moore, tra l'altro, non riesce a reggere i due, a stralci tre livelli narrativi su cui dipana la storia dall'infanzia agli ultimi anni di vita del giovane favoloso, fatta di poca originalità su tutti i fronti: dalle banalotte gag per far sorridere (leggi: arrampicata alla finestra) all'analisi pressappochista di certi personaggi, leggi: Joan Clarke, di cui possiamo però accettare la romanzazione visto che l'unica testimonianza che si ha della donna è un'intervista scritta rilasciata quando aveva settant'anni. Se la bravura della Knightley è quindi più gonfiata del dovuto causa mancanza di concorrenza quest'anno, possiamo lamentarci meno di Sherlock-in-tweed, ancora una volta dispotico illuminato, già eletto attore del 2015, da tutti amato – comunità GLBT inclusa. Impossibile non paragonarlo all'altro nerd in sala, Stephen “Eddie Redmayne” Hawking, sempre super british ma con una malattia degenerativa che alimenta la difficoltà del lavoro dell'attore, soprattutto perché Cumberbatch interpretò il fisico nel TV movie Hawking. Entrambi i film (questo e La Teoria Del Tutto) sono di un ruffiano esasperante tra musiche coinvolgenti e ritmi narrativi da primi piani cogitanti. In questo caso però c'è dietro Harvey Weinstein, furbamente tornato in Inghilterra per replicare l'inspiegabile pioggia di premi de Il Discorso Del Re: «a conti fatti [...] sono proprio elementi come forma anonima ma costosa, attori “bravissimi” ma manierati e scenografie “bellissime” a racchiudere l'ideologia da Oscar [...]. Senza contare la ricostruzione storica cartolinesca» (Giona A. Nazzaro, Film TV). Piacerà a chi: uscendo dalla sala vorrà comprarne il libro per lasciarlo a pagina cinque.

martedì 6 gennaio 2015

ain't-ers gonna ain't.



The Interview
id., 2014, USA, 112 minuti
Regia: Evan Goldberg & Seth Rogen
Sceneggiatura originale: Dan Sterling
Soggetto: Evan Goldberg, Seth Rogen e Dan Sterling
Cast: Seth Rogen, James Franco, Lizzy Caplan, Randall Park,
Diana Bang, Timothy Simons, Reese Alexander, Anders Holm
Voto: 4.8/ 10
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Chiedendosi cosa sarebbe successo se a un giornalista fosse stato chiesto di assassinare un leader politico, molti anni prima di Facciamola Finita, Seth Rogen e Evan Goldberg misero in cantiere il soggetto per un film che avrebbe visto il nord-coreano Kim Jong-il co-protagonista satirico di una sceneggiatura che nel 2011 ancora non esisteva, anno della sua morte. Salito al potere il figlio Kim Jong-un, l'affiatato duo spostò la mira, trovando più divertente utilizzare un personaggio che fosse loro coetaneo; affidarono la sceneggiatura al televisivo Dan Sterling (Girls, The Office ma soprattutto il Daily Show) e la parte del dittatore fu data a Randall Park al primo provino. James Franco arrivò, prevedibilmente, subito dopo. Ma il film si avvale di numerosissimi cameos, alcuni addirittura impercettibili, tra i quali si contano Joseph Gordon-Levitt, Rob Lowe, Kevin Federline (costato 5.000 dollari) e Beyoncé con Jay-Z (10.000 ciascuno, e poi cancellati in fase di montaggio). Già a giugno il governo coreano si espresse: «The Interview rappresenta la disperazione della società americana: un film sull'uccisione di un leader straniero rispecchia ciò che l'USA ha fatto in Iraq, Afghanistan, Siria e Ucraina». Il Guardian rispose che la pellicola «tocca un nervo scoperto del regime» commentando «la nota paranoia del leader sulla sua sicurezza». A luglio: i coreani paragonano l'uscita di un film come questo a una dichiarazione di guerra; il Guardian sottolinea quanta pubblicità si stia facendo. Viene messo in mezzo il presidente Obama, che risponderà solo tra qualche mese. La minaccia di attacchi spietati da parte della Repubblica orientale fa sì che la Columbia sposti la data di uscita dal 10 ottobre al 25 dicembre, modificando nel montaggio e nella post-produzione le scene che avrebbero potuto fomentare la polemica: il design dei bottoni indossati dai personaggi, disegnati sui veri bottoni di guerra inneggianti al leader; la scena della più lunga morte di Kim Jong-un. Ironizzando sulla causa di questo accanimento dei coreani, probabilmente spaventati dal vedere il film nelle proprie sale, Rogen ha dato il via a una campagna di distribuzione di contrabbando delle copie da parte dell'Organizzazione per i Diritti Umani Fighters for a Free North Korea. A novembre, in seguito a un attacco cibernetico, Rogen e Franco hanno dovuto pagare 14.900.000 dollari: il 24, un gruppo di hacker dal nome Guardians of Peace è entrato nelle reti della Columbia e della Sony recuperando dati sensibili degli impiegati e di star sotto contratto quali George Clooney, Leonardo DiCaprio e Ryan Gosling e una serie di pellicole non ancora distribuite quali Annie (ora nelle sale americane), Mr. Turner, Still Alice – ma la Corea ha negato di essere coinvolta. Viene chiesto alla Sony di cancellare The Interview in quanto «film terroristico» ma l'11 dicembre la premiere si fa; il 16 Franco e Rogen cancellano le loro apparizioni pubbliche, il 17 l'uscita nelle sale viene definitivamente annullata (anche perché una serie di multiplex aveva annunciato che non l'avrebbe proiettato), poi il 24 il film viene pubblicato in Europa on demand su varie piattaforme a noleggio (Google Play, Xbox Video, YouTube) e nonostante il milione e mezzo di download illegali nei primi due giorni, è ad oggi il film online più di successo della Sony; il 26 esce in circa 200 sale degli Stati Uniti e incassa quasi 3 milioni di dollari in tre giorni. La storia prosegue, ed è molto più travagliata, incluso l'intervento di Obama: sarebbe stato dimostrato che la Columbia non ha i 300 milioni di dollari necessari per la produzione di 007 Spectre. Molto rumore per nulla (dopo la storia, ecco la trama): il film è una commediola demenziale che si sforza di fare satira senza venirne a capo, sfruttando la simbiosi dei due attori protagonisti Franco e Rogen qui nelle vesti il primo di un presentatore televisivo dalla maschera facciale e dalla fama di Barbara D'Urso e il secondo di un produttore col risentimento di non fare informazione culturale. Pensano che l'intervista al più discusso e controverso leader mondiale, il coreano Jong-un appunto, venerato come un dio e dall'apparente mancanza di orifizi, dittatore di una Repubblica privata del cibo e della democrazia, fissato con gli Stati Uniti al punto da volerli affondare ma poi fan sfegatato di Katy Perry – l'intervista a questo personaggio potrebbe portare ascolti e credibilità molto più in alto, e così ci provano. Ci riescono: ma la C.I.A. capeggiata dalla master of sex Lizzy Caplan mette nelle loro mani un “cerotto” velenoso col quale dovranno far fuori il personaggio. Se in apertura, con una dichiarazione di omosessualità di Eminem, pare di essere davanti a un vero film satirico, che si beffeggia dell'America contemporanea a partire dall'immagine pubblica delle star fino allo slang più becero, l'incanto svanisce presto per scivolare nel più profondo splatter, nella volgarità più soft. Dopo l'autoconvinzione di tornare agli Oscar con Spring Breakers, James Franco si cala totalmente in un'altra performance eccessiva che sfiora l'istrionico, macchietta dei tanti presentatori TV che compaiono di striscio (mentre Ellen viene nominata), uno scemo-fortunato che piace al pubblico, quando il compare allenta le nevrosi di Cattivi Vicini per farsi più banale – sarà però sua la scena culmine. Molto rumore per nulla, dicevo, perché nonostante il doppio ritratto del leader politico, il film non è assolutamente da prendere così sul serio. Le minacce preannunciate e lo scherzo prolungato hanno portato a conseguenze eccessive e ci si domanda come una nazione possa essersela presa tanto – e soprattutto come una serie di attori di certo calibro possa aver accettato comparsate in stile Muppet Show – e soprattutto come la Corea del Nord, $ 40 milioni di PIL all'anno, abbia potuto dichiarare una cyber-guerra a una corporation che ne fattura miliardi.