martedì 13 gennaio 2015

grandi speranze.



Big Eyes
id., 2014, USA, 106 minuti
Regia: Tim Burton
Sceneggiatura originale: Scott Alexander & Larry Karaszewski
Cast: Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Jason Schwartzman,
Danny Huston, Terence Stamp, Jon Polito, Elisabetta Fantone,
Guido Furlani, Delaney Raye, Madeleine Arthur
Voto: 5.5/ 10
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Esercizio cinematografico alla ricerca di una cifra stilistica: dov'è Tim Burton? Ce lo si chiede per tutto il tempo durante questo film, che è big solo nel titolo, nel senso che non è poi così lungo e soprattutto all'inizio avrebbe potuto esserlo, ritratto (passi il termine) di una donna che precocemente e «prima che fosse moda» prende la figlia e lascia il marito e si rifà una vita americana dove le gallerie d'arte espongono solo autori contemporanei, preferibilmente astrattisti. Dipinge per passione, per ispirazione «che viene da dentro», e dipinge soprattutto bambini, bambine, gatti, vengono chiamati “trovatelli” o, per sineddoche, “occhioni” – la motivazione a questa immensità non ci è mai data, se si esclude la banalissima trovata che gli occhi «sono lo specchio dell'anima»; per mantenere sé e la figlia dipinge decorazioni su testate di letti, poi alla domenica, col sole, fa i ritratti dei passanti per due dollari a offerta speciale, scendendo spesso a uno. Qui incontra Walter, estroverso pagliaccio figlio di buona donna, dai modi teatrali e dalle manie di grandezza; egli coglie la fragilità della donna e se la gioca fino a sposarla alle Hawaii, dove lei, come in un più celebre litigio, tornerà per modificare le vesti dei suoi soggetti. Si chiama Margaret Keane, se teniamo buono il cognome di questo secondo marito (ne avrà un terzo) e, tutt'ora viva, è stata una celebrata artista degli anni '50-'60, dopo che si è scoperto che era sua la firma delle opere. Perché, per trovata commerciale di Walter, le tele subiranno un pubblico cambio d'autore dal momento che «le artiste donne non vendono», e ciò che a Walter interessa è la vendita – non importa sotto che forma, al punto che inventerà, cosa latentemente primordiale in quegli anni, i gadget a partire dai quadri, i poster, le cartoline, per coprire un pubblico più vasto e meno abbiente. Non a caso viene citato Andy Warhol e non a caso Margaret mette nel carrello senza pensarci due volte la lattina di zuppa Campbell quando va a fare la spesa e vede, addosso alla gente che la circonda, le grandi iridi che dipinge. Siamo in una piccola visione ma non è una visione di Tim Burton, il visionario regista della locandina, come preannunciato: il regista dov'è? Nonostante siamo stati abituati ultimamente alle esplosioni di colori, di raffinatezze tessili, di scene (spesso digitali) ben costruite sia oniriche sia nostalgiche, dopo l'imbarazzante Alice e l'indigesto Sweenie Todd e il recente (e decente) Dark Shadows – e nonostante questo film abbia una effettiva raffinatezza nelle acconciature retrò, nelle macchine d'epoca, nelle carte da parati e nei vestitini per bimbi, esclusa qualche grottesca rappresentazione ad acrilico infantile non c'è niente che ci riconduca a un regista diventato adesso di cassetta e trito e ritrito nel solito impasto dark, nei soliti personaggi sposi cadaveri, i due soliti attori feticci. Non si sente però, attenzione!, l'assenza di tutte queste cose; si sente piuttosto una forzatura dietro, negli anni della maggior perdita di originalità di Hollywood, si sente una sceneggiatura furbescamente stesa, sotto dettatura degli stereotipi, una sceneggiatura da film per la televisione che Christoph Waltz amerebbe guardare. Si sente un eccessiva carica istrionica nell'attore europeo, che forse cerca di imitare il solito esagerato Johnny Depp, e invece si sentono pochissimo i toni di Amy Adams, nonostante il fresco Golden Globe, stretta nelle troppo poche scene, che avrebbe potuto far diventare questo un film sull'arte, un film sul femminismo emergente – mentre invece è un altro film storia-straordinariamente-vera su un matrimonio di mezzo secolo che vede lei ingenua, lui furbo, la giustizia finale. Si potrebbe paragonare sotto certi aspetti al contemporaneo Magic In The Moonlight: un bell'involucro estetico, un copione da esercitazione delle prime scuole, un regista messo dietro alla macchina da presa senza l'ispirazione «che viene da dentro».

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