mercoledì 25 febbraio 2015

pizza.



Vizio Di Forma
Inherent Vice, 2014, USA, 148 minuti
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura non originale: Paul Thomas Anderson
Basata sul romanzo Vizio Di Forma di Thomas Pynchon (Einaudi)
Cast: Joanna Newsom, Katherine Waterson, Joaquin Phoenix,
Jordan Christian Hearn, Taylor Bonin, Jeannie Berlin, Josh Brolin,
Eric Roberts, Serena Scott Thomas, Maya Rudolph, Martin Dew,
Michael Kenneth Williams, Hong Chau, Shannon Collis,
Christopher Allen Nelson, Benicio Del Toro, Jena Malone,
Owen Wilson, Reese Witherspoon, Martin Short
Voto: 7.7/ 10
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Se adesso celebriamo Wes Anderson, pop e hypster, e parte della cricca degli eredi Coppola, fra venti, trent'anni parleremo di Paul Thomas Anderson come adesso parliamo di quei registi liquidati in vita e rivalutati in morte; non che Anderson non sia abbastanza celebrato, ma forse gli è dato meno spazio di quello che meriterebbe. Anche questa volta viene snobbato dall'Academy, che lo candida ancora per la sceneggiatura senza farlo vincere, preferendogli un non-gay più giovane e dal coraggio pari a zero, nella categoria dei copioni “non originali” perché, per la prima volta, Anderson si rifà a un romanzo e, per la prima volta, qualcuno si rifà a un romanzo del neo-Salinger Thomas Pynchon – autore cardine della letteratura post-moderna americana che nessuno ha mai visto in volto, che si dice appaia nella pellicola senza essere riconosciuto, che è famoso per la scrittura vaporosa e complicatissima a cui nessuno aveva mai messo mano. Solo Anderson poteva affrontare il demone: ossessionato dal libro Vizio Di Forma (che si discosta dagli altri, L'arcobaleno Della Gravità in primis), ha passato mesi a scrivere e trascrivere ogni singolo dialogo, restandogli il più fedele possibile, abbandonando il «caos organizzato» di cui parlano i suoi attori – una battuta iniziale e una finale e la possibilità di improvvisare nel mezzo: tutto doveva essere pianificato per non discostarsi dal romanzo, complicatissimo, labirinto di personaggi e incontri e scomparse e apparizioni e gang e donnine e poliziotti e vascelli e dentisti e droghe che non si capisce mai se causino allucinazioni oppure no. Per necessità aggiunge una voce fuori campo, della cantante folk Joanna Newsom, «femminile» dice «perché dopo The Master non ne potevo più di soli uomini». Quello era ambientato negli anni Cinquanta, Il Petroliere andava indietro verso l'Ottocento, Boogie Nights spiegava l'industria del porno negli abbondanti Settanta, «non ho il distacco di raccontare quello che leggo sui giornali oggi; preferisco andare a scavare nel passato di questa nazione»; e così attinge ai ricordi dei genitori, che alla fine degli anni '60 e dell'era degli hippies erano consapevoli di loro stessi e della «gran musica» che si faceva (musica che viene ancora una volta data in mano a Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, già arrivato al Kodak Theatre per Il Petroliere, che attinge al repertorio di Neil Young e dei Marketts e dei CAN riempendo gli spazi con brani originali potentissimi, come aveva già fatto in The Master), dato che lui alla fine degli anni '60 non c'era: fonti di ispirazione, i fumetti dei Freak Brothers e il duo comico demenzial-hippie Cheech & Chong. Ne deriva un film annebbiato in tutti i sensi, dalla fotografia fumosa e dal ritmo tanto incalzante quanto sedentario per due ore e venti minuti in cui mancano comunque parti della storia originaria. Joaquin Phoenix torna ad essere protagonista (togliendo il ruolo al troppo-anziano Robert Downey Jr) dal physique-du-rôle impeccabile, basette prorompenti e capelli indomabili in cui si cerca addirittura di innestare bigodini, allergia alle scarpe e alle giacche con cravatta e momenti impercettibili tra uno spinello e l'altro per cui i ricordi o sono manomessi o sono dispersi. Ci pensa un taccuino su cui segnare a matita parole chiave per procedere nel lavoro di investigatore privato di certa fama, tra l'altro, con tanto di segretaria Maya Rudolph e amico in caserma Josh Brolin. Il caso a cui assistiamo riguarda l'ex fidanzata Katherine Waterson preoccupata pel suo amante palazzinaro e miliardario e dalla di-lui moglie con altro amante che vorrebbero chiuderlo in una sorta di manicomio karmiko in cui parrebbe finito anche il presunto morto Owen Wilson marito dell'ex tossica Jena Malone rifattasi i denti (e le pere) grazie a una sorta di barca dal nome Gold Fang che è anche un'associazione cinese di smercio e rehab di droghe negli USA a capo della quale pare esserci un Martin Short proto-pedofilo ma amante dei musical classici di Broadway. Una trama irraccontabile e impossibile da seguire appieno, con fondo comedy ancora più potente del fondo noir – perché le commedie “normali” Anderson non è in grado di girarle, basti pensare a Ubriaco D'amore, solo che il tecnicismo registico che c'era lì qui manca, dato l'ampio ventaglio di personaggi da seguire come succedeva nel capolavoro Boogie Nights; di questo film, manca il glamour e il patinatismo (e il pattinatismo) perché tra gengive marce e piedi luridi e costumi (candidati all'Oscar) consunti si vive la paranoia post-peace&love, non la si ricrea. Se ne sta fuori dal giro Reese Witherspoon, pulita e benvestita, che reincontra Phoenix dopo avergli inspiegabilmente rubato la scena in Walk The Line, cedendo al fascino del pelo e dello spinello. I critici che amano fare i paragoni citano Il Grande Lebowski, Paura E Delirio A Las Vegas, Il Grande Sonno, Il Lungo Addio; di questi film c'è effettivamente l'assenza di trama, ma c'è anche un modo di gestirla annacquatamente che è solo – e sarà sempre – di Anderson.

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